Una missione di peacekeeping a Gaza sarebbe un successo per l'Italia, ma attualmente mancano le condizioni. La fretta è cattiva consigliera
Giorgia Meloni lo ha ripetuto al vertice di Sharm el-Sheikh, prima del fine settimana era arrivato il via libera di Crosetto. L’Italia si candida a fare la sua parte con una missione di pace per stabilizzare la Palestina, ma serve cautela, perché non ci sono ancora le condizioni, secondo Vincenzo Giallongo, generale dei Carabinieri con missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo. Giallongo è sopravvissuto all’attentato di al Qaeda a Nassiriya il 12 novembre 2003.
Partiamo dal raggiunto accordo tra Israele e Hamas.
Sì sta parlando molto di una pace che secondo me, e sono in buona compagnia di molti analisti e osservatori internazionali, è ancora di là da venire. Finora Hamas ha liberato gli ostaggi e Israele ha rimesso in libertà duemila detenuti palestinesi, e la tregua sta reggendo. Ma non basta.
Dove sta il punto?
Il fattore decisivo è il disarmo di Hamas. Israele non intende abbandonare l’area occupata e vuole assolutamente che Hamas sparisca dal contesto politico della Palestina e che, per cominciare, consegni tutte le armi. Hamas invece non intende farlo.
Trump ha concesso ad Hamas di svolgere compiti di polizia nella Striscia per evitare vuoti di potere. Come giudica questa mossa?
È scaltra, ma è una concessione a tempo, per ovvi motivi. Vedersi travasati nelle forze palestinesi sarebbe l’ideale per i miliziani di Hamas; figuriamoci l’entusiasmo di Israele davanti a una simile prospettiva. Ecco perché attuare l’accordo è veramente complicato.
Come si risolveranno questi problemi?
È molto probabile che tocchi a Trump tirare fuori una soluzione dal cilindro. Non a Netanyahu.
Che cosa intende?
Netanyahu ha ottenuto ciò che voleva: ha riportato a casa gli ostaggi ancora vivi e distrutto la Palestina. Ma se non si arriva alla pace, non avrà nemmeno più la remora degli ostaggi. Dirà che ha fatto tutto il possibile, che Hamas non deve esistere, né in Israele, né in quello che potrebbe essere lo Stato palestinese; avrà l’opinione pubblica totalmente dalla sua e l’IDF ricomincerà a bombardare.
Tutto questo che cosa significa per una possibile missione di peacekeeping dell’Italia?
È giusto che un Paese come l’Italia faccia di tutto per contribuire alla pace. Per noi sarebbe un grande successo internazionale, sarebbe il coronamento della politica estera della presidente del Consiglio, che si è dimostrata più brava di altri leader europei. Tuttavia in questo momento non ci sono ancora le condizioni, perché la pace che dovremmo mantenere non c’è.
Abbiamo i requisiti per candidarci?
Assolutamente sì. Gli americani caldeggiano la nostra presenza perché ci hanno visti all’opera in quasi tutti i teatri internazionali. E i carabinieri sono bravi, gli USA lo hanno detto anche in sede ONU. Noi non facciamo guerre, e probabilmente non le sapremmo neanche fare, ma abbiamo un approccio totalmente costruttivo al mantenimento della pace, diversamente da altri.
Ad esempio?
Gli inglesi arrivano sul posto e sono rigidi, duri. In Iraq hanno creato tutta una serie di problemi. Neppure i francesi hanno le nostre qualità.
Però nell’agosto scorso i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno votato la sospensione della missione UNIFIL, che terminerà nel 2027.
Hanno fatto bene. Non è stato bello vedere i filmati mandati in onda dal Tg1 con i nostri uomini che facevano da sostanziali spettatori ai miliziani di Hezbollah liberi di scavare i tunnel.
Qual è la prima condizione per poter mandare i militari?
Deve “scoppiare” la pace, quella pace che poi va costruita giorno dopo giorno.
Gli errori da non commettere?
Affrettare i tempi. Non bisogna cedere alla fretta, nemmeno se gli americani ci volessero subito sul posto. Vorrebbe dire andare allo sbaraglio. È un paradosso, ma Hamas già in queste ore sta rendendo più “sicura” la Striscia. Si combatte tra gruppi armati, tra i quali ci sono sicuramente anche quelli di cui Hamas si è servito per fare la mattanza del 7 Ottobre, e che adesso sono ansiosi di avere più potere e più controllo perché anch’essi hanno fatto “la loro parte” contro Israele.
C’è anche un problema di consenso politico.
Certo. Per autorizzare una missione del genere serve una maggioranza parlamentare corposa, la più ampia possibile. Il massimo sarebbe avere l’unanimità del parlamento. Occorre prudenza, ripeto, perché sono cose sulle quali un governo può anche cadere.
In quale cornice legale ci dovremmo collocare?
Meglio sotto il cappello dell’Unione Europea che sotto quello dell’ONU, malvisto dagli Stati Uniti.
Quale sarebbe il rischio legato ad una partenza affrettata, con una guerra per bande ancora in atto?
Finiremmo probabilmente per chiuderci in una base per evitare un attentato, senza poi muoverci da lì, come in parte è successo in Afghanistan. Solo per poter dire che c’eravamo anche noi.
Esiste il rischio zero?
No, promettere il rischio zero sarebbe l’errore opposto, perché il rischio zero non esiste. È un errore già commesso e non dobbiamo ripeterlo. La missione in Iraq “Antica Babilonia” – che passò per due voti di scarto (51 a 49, ndr) – sembrava che fosse una passeggiata, non lo era, e lo capimmo ben prima dell’attentato.
Se ci fossero le condizioni, da dove verrebbero i maggiori rischi per i nostri militari?

Dai possibili attentati da parte dei gruppi islamisti presenti nel territorio. Anche se abbiamo dei bravissimi professionisti in grado di gestire un ampio ventaglio di condizioni di insicurezza.
Come se ne esce?
Hamas ha firmato l’accordo, ora deve fare pulizia nella Striscia.
Quando dice che servono condizioni di sicurezza, che tempi prevede?
A mio avviso, sarebbe difficile mandare una missione prima di un mese, un mese e mezzo. Il tempo che serve ai rapporti tra Israele e Hamas avere effetti, chiarendo la situazione.
Se l’accordo naufraga?
A quel punto Netanyahu, costretto alla tregua da Trump, rabbonito con gli elogi e ripagato con la richiesta di grazia, tornerebbe in pista, e non ci sarebbe più bisogno di alcuna missione.
Di Israele abbiamo detto. E per quanto riguarda Hamas? I miliziani sarebbero pronti a farsi da parte una volta svolto il loro compito?
Non credo. Più volte gli accordi sono saltati perché a ribellarsi è stata l’ala militare. Non si lascia così facilmente il potere, qualunque esso sia. E poi Hamas è fatta di gente cresciuta facendo la guerra.
Lei è pessimista?
Io non la vedo così semplice, alla fine di questo accordo secondo me non c’è ancora la pace. Ma vorrei tantissimo essere un cattivo profeta e quindi sbagliarmi.
(Federico Ferraù)
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