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Home » Musica e concerti » 68 E OLTRE/ Da Camus a Bob Dylan, quelle parole rinnegate che è necessario riscoprire

  • Musica e concerti

68 E OLTRE/ Da Camus a Bob Dylan, quelle parole rinnegate che è necessario riscoprire

Int. Pietro Toffoletto
Pubblicato 22 Agosto 2018
bob_dylan_rock_concerto_lapresse_1975

Bob Dylan durante un concerto in Germania nel 1975 (LaPresse)

Oggi pomeriggio al Meeting il docente e musicologo PIETRO TOFFOLETTO  ci guiderà in un percorso per capire cosa ha significato il 68, tra canzoni e parola. Lo abbiamo intervistato

Pietro Toffoletto, insegnante di filosofia, ma anche musicista (è laureato al conservatorio) sarà protagonista al Meeting di Rimini oggi pomeriggio dell’incontro “’68 e oltre: ‘Mi rivolto, quindi sono’, la ricerca dell’identità nella musica della contestazione”. Un approccio unico quello che unisce filosofia e musica per capire cosa significò davvero a 50 anni di stanza il 68. Ne abbiamo parlato con lui.


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Filosofo e musicista, come si uniscono queste due discipline in un paese che considera ancora la classica musica di serie A e quella leggera di serie B?

Sono due percorsi che ho unito per passione personale verso entrambe, ma anche perché credo che una spieghi l’altra. Per quanto riguarda queste distinzioni, penso siano abbastanza superate. Ci sono momenti di basso livello anche nella musica classica e momenti di altissimo livello in quella che è definita leggera. Poi magari come percentuale c’è più da buttare nella seconda, ma si potrebbe discuterne.


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Il titolo del tuo incontro cita la frase dello scrittore Camus, “Mi rivolto quindi siamo”: come mai?

E’ vero che è un gioco di parole che fa Camus rispetto a Cartesio, ma nel corso del mio incontro riprenderò proprio alcune cose di Camus. Dal punto di vista del significato, per moltissimi il 68 quello più politico della canzone di protesta significò la riscoperta della propria identità a partire dalla protesta. Questo però e lo dicono anche Camus e Bob Dylan, crea problemi alla identità stessa, al capire chi siamo veramente. 

Il tuo incontro è caratterizzato da parola e musica, come è strutturato?


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Suonerò alcuni pezzi e altri li faranno degli amici alcuni professionisti altri amatori. Faremo 6 o 7 pezzi che sono una sorta di guida all’ascolto al filo conduttore di quello che dirò.

Che brani, in particolare?

Partiremo da alcuni pezzi risalenti al periodo precedente al 68, anche jazz perché mi interessa sviscerare la curiosità dei bianchi verso i neri che è molto importante per capire il 68, ma anche brani del repertorio brasiliano per scoprire aspetti meno scontati della canzone di protesta.

Cantanti italiani?

Ne faremo di sicuro un paio e trasmetteremo anche da video o da audio senza affondare troppo in un mare magnum di quel fenomeno che furono i cantautori.


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Ci puoi anticipare quali saranno?

Sicuramente faremo sentire qualche spezzone di Gaber, testi di Guccini, qualche accenno anche a De André ma la riscoperta sarà quella di un cantante romano poco conosciuto, ma che rappresentò bene lo spirito del 68, Stefano Rosso. 

Ottima scelta. L’opinione dei musicisti rock rispetto alla canzone è divisa in due visioni diverse: chi dice che le canzoni si limitano a descrivere quello che succede nella realtà senza essere in grado di cambiare il mondo, chi dice invece che le canzoni possono cambiare il mondo. La tua opinione?

Questa è una bella domanda che va dentro alla domanda più grande che è quella del rapporto fra arte e storia. Facendo questo percorso in preparazione all’incontro ho scoperto che valgono le due cose. Canzoni che raccontano in modo incredibile fatti del tempo da risultare non datate. Tra queste quelle più grandi riescono ancora a far riflettere, a cambiare menti e cuori degli uomini che le ascoltano. Il tempo associato ai cambiamenti politici di massa è finito ma quelle più belle hanno smosso in me qualcosa mentre preparavo questo incontro e sicuramente hanno lo stesso effetto anche su altri.


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Dal punto di vista filosofico invece? C’è chi dice che se oggi abbiamo certe libertà è grazie al 68, e chi dice invece che il 68 ha distrutto valori imprenscindibili, ad esempio la famiglia.

Lavorando su filosofi e sociologi, devo dire che ci sono alcune cesure, ad esempio il 68 americano ha un certo spirito e il 68 italiano un altro, viene politicizzato molto presto. Ma anche tendenze simili. Ho notato che si vede l’esigenza di avere dei padri. Non riconoscendo quelli naturali come tali fa sì che molti di questi ragazzi riconoscessero alcune tradizioni riportate in vita da padri presenti.


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Cioè?

La grande tradizione della canzone folk non sarebbe stato quell’evento che è stato se non ci fosse stato un Bob Dylan a riportarla in auge. Quindi questo taglio col passato ha radici profonde e al tempo stesso è interessante vedere che chi lo aveva praticato si è trovato senza nulla in mano  e costretto a trovare altrove quei padri che aveva rinnegato. Lo dice Springsteen a proposito di Bob Dylan: erano ragazzi che avevano bisogno di diventare adulti, non volevano restare ragazzi e hanno cercato personalità coetanee che permettessero loro di diventare tali, nel momento in cui rifiutavano il padre e la famiglia, in un momento storico in cui recidere i legami ha creato più macerie che altro.

Forse è per questo che chi non ha mai smesso di porsi domande e si è sempre rimesso in discussione, come Dylan, è ancora qui oggi a fare dischi e concerti mentre tanti altri come Hendrix o Jim Morrison sono morti giovanissimi di eccessi. Sei d’accordo?

Sì. Chi si è posto delle domande anche di fronte al disagio di risposte che mostravano la corda dopo pochi anni si è reso conto del profondo bisogno di riscoprire parole rinnegate, ad esempio quella del padre.

(Paolo Vites)

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