J’ACCUSE/ Quello statalismo “ottocentesco” che non è mai morto e ce l’ha col non profit
Il modello di comunicazione di dati e notizie pensato dall’Agenzia delle entrate per le associazioni non profit esprime la diffidenza nei confronti di tutto ciò che non è commerciale “puro” tipica di una cultura statalista ancora di stampo ottocentesco. Lo spiega ALCESTE SANTUARI

In questi giorni, l’Agenzia delle entrate ha approvato un modello di comunicazione di dati e notizie che le organizzazioni non profit di carattere associativo debbono inviare alla stessa, contro il quale il mondo delle organizzazioni non lucrative e del volontariato hanno reagito molto negativamente. La motivazione sottesa alla richiesta di tali notizie è quella di verificare che le presunzioni fiscali di decommercializzazione delle attività svolte dagli enti associativi siano invero tali e presenti all’interno delle organizzazioni non profit.
Verificare che i benefici (fiscali) erogati siano impiegati per lo svolgimento della finalità sociale caratterizzante gli enti associativi costituisce componente fondamentale di uno stato civile e una funzione di monitoraggio a garanzia della comunità. Purtroppo, tale funzione di verifica nel caso delle realtà non lucrative, spesso, come accaduto anche in questo caso specifico, si trasforma in adempimenti che, considerate le dimensioni e la natura degli enti in parola, rischiano di essere vessatori. Peraltro, a ben vedere, trattasi di dati e notizie che, a vario titolo, sono già in possesso della Pubblica amministrazione (comuni, regioni, province, Agenzia delle entrate, camere di commercio, Istat).
È stato correttamente sottolineato da Monica Poletto su questo quotidiano che le richieste alle organizzazioni non profit travalicano i confini tributari per attestarsi anche sugli assetti organizzativi e gestionali delle organizzazioni di volontariato. Benché si tratti di un esito coerente con l’impianto generale del Dlgs. n. 460/97, il quale ha inserito in una disciplina di carattere tributario anchedisposizioni di carattere civilistico (aspetto non ancora riformato in senso organico), nondimeno stona, poiché rappresenta un approccio che si sperava fosse – almeno parzialmente – superato e archiviato, ossia quello di una sostanziale (e in questo caso anche formale) diffidenza nei confronti di tutto ciò che non è commerciale “puro”.
Si tratta di una diffidenza che affonda le proprie radici nella storia giuridico-economica del nostro Paese, in cui le organizzazioni non profit (laiche e religiose che fossero) sono state sovente oggetto di critiche, vuoi perché accusate di perpetuare la cosiddetta “manomorta”, e quindi di non produrre ricchezza, vuoi perché di impedimento al pieno sviluppo di uno statalismo, di cui ancora oggi possiamo assistere a qualche rigurgito.
Il sospetto e la diffidenza nei confronti delle organizzazioni non profit fu in parte mitigato e superato dalle disposizioni contenute nel Libro Primo del Codice Civile, nel quale associazioni e fondazioni (pur assoggettate ai controlli ottocenteschi) trovarono un loro spazio. Dopo di allora, il legislatore italiano ha certamente approvato leggi “in favore” delle organizzazioni non lucrative (si pensi alla legge sul volontariato e a quella sulle cooperative sociali) che, tuttavia, non hanno dissipato del tutto la convinzione che – in specie quando trattasi di questioni fiscali – il favor rimanga spesso a livello teorico.
Ne è una dimostrazione, in questo senso, proprio una circolare del ministero delle Finanze del 1998 (circolare 12 maggio 1998, applicativa del Dlgs. n. 460/97), laddove in essa si legge quanto segue: “L’elemento distintivo degli enti non commerciali, anche a seguito del citato decreto legislativo n. 460 del 1997, è costituito, quindi, dal fatto di non avere tali enti quale oggetto esclusivo o principale lo svolgimento di una attività di natura commerciale, intendendosi per tale l’attività che determina reddito d’impresa ai sensi dell’art. 51 del Tuir. Nessun rilievo assume, invece, ai fini della qualificazione dell’ente non commerciale la natura (pubblica o privata) del soggetto, la rilevanza sociale delle finalità perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati (corsivo dell’A.)”.
Ci sembra questa una possibile spiegazione della reiterata e mai sopita “attenzione” di stampo ottocentesco alle attività delle organizzazioni non profit. Nel nostro ordinamento invero le finalità rivestono (e forse non è un caso che ad oggi i controlli sono per lo più di natura fiscale e non civilistica) un’importanza residuale. Da ciò consegue che – come recita la circolare sopra richiamata – non rilevi il fine, quanto i mezzi per raggiungere quel fine. Eppure basterebbe guardare alle tante positive esperienze a livello locale e territoriale per far comprendere all’Agenzia delle entrate quanto lontana sia dalla realtà fattuale l’idea di organizzazioni che “lucrano” sulle agevolazioni fiscali loro attribuite. E proprio gli enti locali potrebbero unirsi alle organizzazioni di rappresentanza del volontariato e del non profit per difendere un modello di welfare che non a caso un’altra branca dell’Amministrazione statale (il ministero del Welfare e della Salute) ha individuato quale “un modello sociale così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche, ma anche riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, della impresa profittevole e non, come di tutti i corpi intermedi che concorrono a fare la comunità”.
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