I NUMERI/ Lo spread che rende “inutile” la scuola per chi cerca lavoro

- Gianni Zen

In questi primi giorni di scuola si viene a scoprire che l’istruzione viene considerata dagli italiani sempre meno rilevante per il lavoro. Il commento di GIANNI ZEN

scuola_banco_sediaR400 (infophoto)

Abbiamo un bel da dire ai nostri giovani, sin da questi primi giorni di anno scolastico, che la scuola è fondamentale per la loro vita, anzitutto a livello formativo personale, e poi in relazione agli sbocchi occupazionali. La scuola, in poche parole, come primo investimento, golden share, garanzia di un futuro di speranza. Perché poi, a un certo punto, ci ritroviamo di fronte a notizie che fanno riflettere, che costringono a rivedere alcune certezze acquisite.

Penso qui ai dati che sono emersi nella recente ricerca promossa dalla Nielsen (azienda leader di informazione di marketing) all’interno della Global Survey sull’Istruzione, riferita al secondo trimestre 2013 su un campione di 29.000 intervistati di 58 paesi. In gioco, lo si è capito, è il valore attribuito alla formazione, se davvero viene vissuta, alla lunga, come primo investimento, in grado di garantire pari dignità, efficacia di risultati, forme concrete di ascensore sociale.

Il dato che fa scalpore riguarda un 16% di italiani che ritiene “decisiva” la formazione seguita per la propria carriera nel mondo del lavoro. Solo il 16%, di contro al 24% della media europea e il 32% della media mondiale. Mentre un 46%, più genericamente, ritiene positiva l’educazione scolastica, solo il 16% la ritiene decisiva.

Prima dell’inserimento nel mondo del lavoro, la formazione è ritenuta da tutti imprescindibile, ma, una volta inseriti, non è più determinante per il prosieguo della carriera e delle aspirazioni personali, anche in termini stipendiali. Cosa diventa dunque determinante nel cammino della vita lavorativa? L’effettiva capacità di ogni persona di mettere in pratica le conoscenze acquisite, inizialmente per lo più solo teoriche, astratte, lontane dalla vita reale.

Solo il 37% ritiene che la formazione cioè possa, anche se parzialmente, avere un effetto positivo; solo l’8% ritiene, infine, che le borse di studio messe a disposizione diano un valore aggiunto. Eppure il giudizio complessivo sulle scuole del primo ciclo (53%) e sulle superiori risulta positivo, con un 31% di pieno apprezzamento e un 52% di relativa anche se positiva considerazione. Anche per l’offerta universitaria i giudizi sull’apprezzamento risultano nel complesso positivi, anche se con percentuali inferiori.

Questi dati ci dicono, secondo l’amministratore delegato della Nielsen Italia Roberto Pedretti, “che la qualità del sistema scolastico e universitario italiano è soddisfacente, seppur consapevoli del disallineamento con gli standard europei. Nello stesso tempo, però, rimane alta l’aspettativa verso i nostri servizi scolastici, che sono ritenuti un punto di avvio importante per l’inserimento nel mondo del lavoro da oltre la metà degli italiani”.

La formazione, dunque, come primo investimento, ma meno determinante se consideriamo il progress della vita di un lavoratore, di un imprenditore, di un professionista. Questo è dovuto, da un lato, alla consapevolezza che, in un’economia della conoscenza, la formazione non è mai riducibile a un dato da acquisire una volta per tutte, e dall’altro che la formazione corre in parallelo con tutte le nostre scelte.

Considerando il rilievo di Almalaurea sul valore, da parte dei neolaureati, della scelta di indirizzo di scuola superiore – per il 46% se tornasse indietro cambierebbe scelta -, rimane da comprendere se la filiera formativa possa nel concreto rappresentare per i nostri giovani un’opportunità “democratica”, secondo pari dignità, in termini di “ascensore sociale”. Sono convinto che, come è strutturata la nostra offerta formativa, oggi la scuola non rappresenti un volano democratico, secondo pari dignità, garanzia di efficacia dei talenti, forma privilegiata di prevenzione della dispersione scolastica. Andrebbe rivista la governance, ripensati e rivisti i “saperi essenziali”, rimodulata la didattica più sul versante dei metodi e meno dei contenuti, riviste le forme di selezione del personale docente e dirigente. Come primi atti.

La ricerca Nielsen porta cioè all’evidenza lo spread, anzitutto educativo, che ci separa dalla Germania. Tanto per avere un confronto diretto con un nostro partner. La ministra Carrozza aveva fatto intendere, su questo punto, di avere idee chiare al riguardo, nell’intervento di Cernobbio, anche se il successivo suo decreto l’ha poi smentita. A parte il richiamo al valore orientante degli indirizzi di studio.

L’efficacia e la lungimiranza di una politica scolastica si misurano dalla capacità o meno di collegare l’offerta formativa col mondo del lavoro, con la vita dell’impresa e degli studi professionali, cioè con la vita reale. Penso qui non solo alle positive, ma frammentarie, esperienze di stage e di alternanza, ma, prima ancora, al “rafforzamento del valore educativo dell’apprendistato”, come si è espresso di recente Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’Education. Non solo attraverso “periodi di formazione in azienda” da parte degli studenti delle superiori, ma anche privilegiando un intero anno scolastico per diverse lauree triennali e specialistiche, sempre sul modello tedesco.

Altre iniziative possibili: un vero rilancio dell’istruzione tecnica e professionale, investimento sulla mobilità studentesca, la valorizzazione dei Poli tecnico-professionali, la conversione della didattica in forma laboratoriale, con adeguata formazione dei docenti e dei tecnici, la piena valorizzazione, secondo merito, dei migliori docenti e presidi.

Il tutto nei termini, già accennati, di nuove forme di orientamento in itinere, secondo i profili d’uscita, oltre le barriere, oggi obsolete, degli esami di terza media e di maturità. Per prevenire il mismatch tra domanda di lavoro e offerta formativa.





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