I giudici di Milano hanno detto no alla giustizia riparativa per Impagnatiello. Ma la motivazione della Corte di appello non è convincente

Non convincono le ragioni che hanno indotto la pur assai autorevole Corte di assise di appello di Milano a respingere la richiesta di Impagnatiello di intraprendere un percorso di giustizia riparativa.

La riforma Cartabia attribuisce grande rilievo a questa opportunità offerta ad autori e a vittime del reato, per cercare di favorire, attraverso il loro incontro, liberamente scelto, una riparazione delle relazioni lese dal reato con il conseguente beneficio per entrambe le parti: aumentare la consapevolezza del proprio errore in capo al reo, chiamato ad aderire a gesti di riparazione, e consentire alle persone offese di non essere più solo ripiegate sul dolore patito, ma di andare avanti con uno sguardo volto al futuro, tentando di stemperare la sofferenza sostituendo al rancore il dialogo e l’aspettativa di una possibile riconciliazione.



I giudici avrebbero (il condizionale è d’obbligo, in quanto non è nota nel dettaglio l’ordinanza pronunciata dalla Corte) correttamente riconosciuto la sussistenza di due dei tre parametri che regolano l’accesso al percorso: l’assenza di pericolo per le parti e l’assenza di pericolo per l’accertamento dei fatti (il processo è in fase avanzata essendo già stato celebrato l’appello), ma avrebbero ritenuto insussistente il terzo presupposto e cioè l’utilità del percorso riparatorio.



Secondo la Corte infatti il movente che ha spinto l’ex barman ad uccidere sarebbe prova della sua non raggiunta consapevolezza di rivisitazione, autocensura, rimarginazione e riconciliazione sociale, e ciò nonostante le parole pronunciate in udienza, quando ha spiegato le ragioni del proprio agire e affermato di essere cambiato grazie al lavoro su di sé svolto in carcere durante la detenzione fino ad ora patita.

La Corte ha infine concluso che nulla impedisce all’imputato di avanzare una nuova richiesta in un momento successivo.

Non è una motivazione convincente.

La normativa che ha regolamentato la giustizia riparativa precisa che i programmi di giustizia riparativa sono accessibili senza preclusioni in relazione sia alla fattispecie di reato che alla sua gravità, e l’accesso è sempre favorito, potendo essere “limitato soltanto in caso di pericolo concreto per i partecipanti”. Un pericolo che nel caso concreto è esplicitamente escluso.



Neppure è rilevante, per poter escludere il percorso, la circostanza che le persone offese, i parenti della vittima nel caso specifico, abbiano rifiutato di partecipare, in quanto il programma può comunque essere effettuato attraverso i contatti tra il reo e le vittime di un reato diverso da quello per cui si procede o con associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato.

È da rilevare inoltre che il percorso di giustizia riparativa viene per legge predisposto da mediatori professionisti ed è preceduto da contatti e colloqui che gli stessi svolgono con tutte le parti in causa al fine di raccogliere il consenso e verificare la fattibilità del programma stesso.

Sono loro, quindi, che devono effettuare le valutazioni del caso per poi poter affermare la sincerità delle intenzioni del reo che chieda di accedere al percorso e la fattibilità dello stesso e quindi ritenere sussistente quell’utilità.

Diversamente si rischia di vanificare un istituto su cui la Riforma Cartabia ha molto investito per umanizzare il processo penale ed accelerare il percorso di recupero di chi ha commesso reati, soprattutto in un’epoca come quella attuale, contraddistinta dalla celebrazione di numerosi processi di grande impatto mediatico grazie agli innumerevoli talk-show ove i protagonisti del processo si affrontano sempre con grande animosità e crescente conflittualità.

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