La storia si ripete. Come farà il governo Conte 2 a trovare nelle pieghe della legge di bilancio 2020 non soltanto i 23 miliardi che serviranno per non aumentare l’Iva, non solo i 7 che serviranno per mantenere il reddito di cittadinanza, ma anche gli altrettanti che verranno assorbiti dalla riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro?
Ma naturalmente – dicono le anime belle e gli ottimisti – li troverà, questi quasi 40 miliardi, nella maggior flessibilità che Ursula von der Layen ha già annunciato di voler introdurre nel patto di stabilità, rendendolo un po’ più simile a quel “patto di stabilità e crescita” che avrebbe dovuto essere nei sogni dei padri dell’Europa e che venne invece dimezzato per il diktat – già allora! – dei tedeschi.
Ma hanno ragione questi ottimisti, queste anime belle? È tutt’altro che scontato. Al punto che la Reuters, una testata serissima e non faziosa, ha rivelato ieri – raccogliendo per di più in merito un no-comment, e non una smentita, dalle fonti ufficiali – che “la Germania sta prendendo in considerazione la creazione di un ‘bilancio ombra’ che consentirebbe a Berlino di incrementare gli investimenti pubblici oltre le restrizioni sul debito previste in Costituzione, secondo quanto riferito a Reuters da tre fonti a conoscenza della questione”.
L’ennesima furbata di quella che fu la nazione del rigore e della disciplina e che dopo il Dieselgate è lecito definire invece la nazione del Cettem Von kualunquen, una copia brutta e sgangherata della peggiore Italia furbastra.
I funzionari del governo – sempre secondo Reuters – starebbero considerando l’idea di istituire entità pubbliche indipendenti che usufruirebbero di finanziamenti a costo zero e farebbero nuovo debito per aumentare gli investimenti in infrastrutture e protezione ambientale, hanno detto i funzionari, che hanno preferito restare anonimi. Le spese di questi enti pubblici indipendenti finanziate dal debito non sarebbero regolamentate dalle rigide leggi fiscali sancite dalla Germania per frenare il debito, ma solo in base alle norme più indulgenti del Patto di stabilità e crescita dell’Unione Europea, affermano le stesse fonti.
Per tentare di capire cosa potrà accadere, è inevitabile riandare con la mente ai ricordi di alcune (brutte) puntate precedenti di questo lungo romanzo del declino italiano in Europa. Risaliamo alle elezioni dell’87, dove si confermò un Parlamento di perdenti, affidabile solo a una larga coalizione: il pentapartito. Governarono dapprima Fanfani, poi Goria, poi Giulio Andreotti, sesto e settimo. L’economia nazionale, soprattutto quella pubblica, andò giù a rotta di collo, i rapporti tra il governo e la Banca d’Italia non andarono forse a dovere, fatto sta che nel giugno del ’92 Andreotti si dimise e lo stesso Parlamento elesse al suo posto una sorta di commissario politico nella figura di Giuliano Amato. L’esponente socialista varò una manovra severissima che incluse l’inopinato prelievo patrimoniale del 6 per mille sui conti correnti. Che non bastò però a placare i mercati, avidi di sangue economico italiano. Nel settembre del ’92 venne varata l’ultima “svalutazione competitiva” della lira, che era poi un riallineamento delle parità nell’ambito dell’accordo Sme. Fu l’ultima che i tedeschi ci concessero, stufi com’erano di vedersi superare sui mercati dai nostri esportatori favoriti dal cambio.
Fu una cesura economica cui ne seguì una politico-morale: l’esplosione di Tangentopoli, con la raffica degli oltre 2500 arresti che decapitò l’intera nomenclatura dei partiti di governo.
Con il governo Ciampi (aprile ’93) il vento cambiò, e di molto. Divenne chiaro a tutti che un Paese fortemente indebitato, necessitato per questo a collocare periodicamente anche in mani straniere parti dei suoi titoli pubblici, fosse in qualche modo ricattato dai mercati e dai Paesi forti che nei mercati navigavano sicuri, tanto per cambiare Germania e Francia.
Il resto fu un precipizio di decisioni prese a ritmo frenetico con l’obiettivo di agganciare l’ingresso nella nascente moneta unica europea sin dalla prima fase di unificazione. La più grande campagna di privatizzazioni d’Europa, circa 180mila miliardi di controvalore ed alcune svendite che gridano vendetta al cospetto di Dio come quella di Telecom, seguita al fallimento dell’Efim e alla crisi debitoria dell’Iri, e al conseguente accordo Andreatta-Van Miert che condizionava a questa smobilitazione dello Stato-padrone l’ingresso nell’euro sin dalla fase uno. Si sostanziò quell’idea anti-italiana del vincolo esterno come unica purga, unica punizione corporale capace di emendare l’Italia dai suoi peccati originali. Un vincolo esterno – i Trattati di Maastricht – che inderogabilmente ci obbligassero a ragionare come i tedeschi. Contestualmente iniziò con i cambi della confluenza delle valute nazionali nell’euro il predominio di fatto della Germania sugli altri partner, fino a quel cambio per noi svantaggiosissimo, 1936,27 lire per un euro, che praticamente cancellò d’un colpo tutti i vantaggi delle svalutazioni competitive maturati dall’Italia nei decenni.
Diceva Ciampi: “Il vincolo esterno è come quel chiodo che l’alpinista conficca sulla parete della montagna molto al di sopra della sua testa per potervisi inerpicare senza retrocedere”. Peccato che nei fatti l’economia italiana a quel chiodo è finita impiccata, come attesta il crollo della nostra competitività sui paesi concorrenti negli ultimi vent’anni, gli anni dell’euro.
E siamo ai giorni nostri. La Germania fa la furba e si riscrive un Trattato ad personam. Non potrà essere certo l’Italia a dar lezioni su come impedire le leggi ad personam per quante ne abbiamo lasciate promulgare. Ma non è certo questa mossa la spia del nuovo spirito che animerebbe i tedeschi, provati dall’inutilità di anni di ricchezza, benessere, finanza pubblica in ordine e avanzo commerciale.
Semmai, al contrario, queste idee furbastre dimostrano che finora l’Unione è stata un centro di scambio del peggio. Noi abbiamo insegnato la furbizia ai tedeschi, i tedeschi non sono riusciti a insegnarci il rigore ma semmai, almeno a qualcuno, il razzismo.
Non doveva, non deve, essere così, “l’Europa dei popoli”.