PATTO DI STABILITÀ/ I cambiamenti possibili se Draghi e Macron restano in sella

- int. Domenico Lombardi

Macron e Draghi indicano un possibile compromesso sul futuro del Patto di stabilità. Ma il futuro di entrambi appare oggi molto incerto

Macron e Draghi Trattato del Quirinale Francia-Italia: Emmanuel Macron e Mario Draghi (LaPresse, 2021)

Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre, la Francia assumerà la presidenza di turno dell’Ue e di fatto, come evidenzia Domenico Lombardi, si entrerà nel vivo dei negoziati per la riforma del Patto di stabilità e crescita, tema a cui Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno dedicato un intervento sul Financial Times, il quale, spiega l’economista ed ex consigliere del Fmi, “contiene un segnale politicamente rilevante, la cui valenza è di aprire formalmente i negoziati per la riforma del Patto di stabilità”.

Dal punto di vista dei contenuti, cosa pensa dell’intervento del presidente francese e del premier italiano?

Vengono rielaborati temi già emersi o accennati in precedenti interventi di entrambi, partendo dal presupposto che la risposta europea alla pandemia è stata efficace, sia nel metodo che nelle modalità di finanziamento, oltre che negli obiettivi di trasformazione strutturale dell’economia che l’Ue si è dati. Macron e Draghi fanno anche un’affermazione che ha una valenza politica rilevante rispetto ai negoziati sul Patto di stabilità: la politica fiscale deve essere ancillare rispetto agli obiettivi macroeconomici e di trasformazione strutturale formulati in sede europea. 

Perché è così importante questa affermazione?

Perché partendo da questa ipotesi, che sorreggerà la posizione italo-francese nei negoziati, non si può che arrivare a un impianto del Patto di stabilità auspicabilmente diverso dall’attuale. Un altro aspetto rilevante da sottolineare è che nel richiedere un sistema di regole per la politica fiscale più moderno, compatibile e non in contraddizione con quelli che sono gli obiettivi europei già formulati e che Bruxelles sta finanziando, Macron e Draghi non solo manifestano l’esigenza che le nuove regole siano coerenti con le transizioni ecologica e digitale, ma chiedono anche che rafforzino e garantiscano la sovranità europea. Questo è importante perché apre la porta a due conseguenze. 

Quali?

La prima è che anche gli investimenti in tecnologia possono essere considerati strategici per la sovranità europea in quanto riducono la dipendenza da altri Paesi, basti pensare all’attuale situazione relativa ai semiconduttori e al suo impatto sull’industria automobilistica. La seconda è che la transizione green non deve ridurre l’Europa a vassallo della Cina o della Russia per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico piuttosto che di materiali strategici come il litio. Questo è un aspetto importante che Macron e Draghi in realtà non esplicitano, ma che può rientrare nella nozione di sovranità cui fanno riferimento considerando che con la transizione green la dipendenza dagli altri Paesi rischia di essere maggiore rispetto a quanto non avvenga ora coi combustibili fossili. Per concludere l’analisi sul testo pubblicato dal Financial Times, i leader di Italia e Francia ribadiscono un messaggio politico già esplicitato in altre occasioni: la stabilizzazione del debito pubblico si raggiunge con la crescita.

A proposito del debito pubblico, sul sito di palazzo Chigi si trova il rimando a una proposta di Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller in cui si ipotizza il trasferimento di parte dei debiti nazionali accumulati durante la pandemia nel bilancio della Bce a un’agenzia europea di gestione del debito. Cosa ne pensa?

Nel documento, firmato da consulenti sia di palazzo Chigi che dell’Eliseo, c’è questa indicazione che in sé non è nuova, salvo che nella proposta si allude a uno scambio tra la creazione di questa nuova agenzia, che rappresenterebbe un meccanismo permanente per l’emissione di titoli assimilabili agli eurobond, e la piena indipendenza della Bce che alcuni Paesi del nord Europa temono possa essere a rischio proprio in ragione della quantità di debiti nazionali classati sul bilancio dell’Eurotower. Appare chiaro l’intento, quindi, di mediare tra opposte esigenze. Nel documento vengono anche declinate tecnicamente le affermazioni politiche del testo di Draghi e Macron pubblicato dal Financial Times. 

In che modo vengono declinate?

L’idea di base è che i controlli europei non siano più sul deficit in quanto tale, ma sulla qualità della spesa pubblica, la cui composizione determina la velocità di aggiustamento verso un obiettivo debito/Pil di lungo periodo. In questo senso nel documento si escludono dal computo del tetto di spesa non solo gli investimenti, ma anche i costi relativi agli aggiustamenti che l’implementazione delle riforme strutturali comporta. Ad esempio, se per via della transizione green si genera più disoccupazione nel breve periodo, il costo per la riallocazione dei lavoratori può essere dedotto dal tetto di spesa. Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller ipotizzano, quindi, anche di collegare inversamente la velocità dell’aggiustamento del rapporto debito/Pil alla quantità di investimenti pubblici o spese connesse alle riforme strutturali sostenute. Anche in questo modo, pertanto, si cerca di prevenire in qualche misura le obiezioni dei Paesi nordeuropei. C’è comunque un aspetto che ritengo potenzialmente problematico nel documento in questione.

Quale?

Si attribuisce alla Commissione europea il ruolo di certificatore di tutti gli investimenti e di tutte le spese soggette a deduzione. Quindi se attualmente Bruxelles è il certificatore del livello del deficit, in base a questa proposta lo diventerebbe anche per una serie di singole poste di bilancio. 

C’è quindi il rischio di una possibile “discrezionalità politica” da parte di Bruxelles?

Sì, soprattutto quando si adotta una definizione molto ampia sulle voci che possono essere dedotte, c’è il rischio che la Commissione abbia un ruolo assai intrusivo che ne accentui la discrezionalità. Cosa che in realtà gli economisti che hanno redatto il documento vorrebbero rimuovere perché ritengono che il sistema di regole europee sia così ricco di codici e codicilli da portare l’opinione pubblica a non capire quale sia la ratio che muove le trattative tra autorità nazionali ed europee nella definizione delle variabili fiscali. Credo ci sia modo per valorizzare maggiormente o potenzialmente il ruolo dei fiscal council nazionali (in Italia l’Ufficio parlamentare di bilancio), i quali potrebbero, in linea di principio, svolgere la funzione di certificazione ipotizzata.

Tutto questo, dunque, fa parte della proposta comune di Macron e Draghi. Entrambi hanno recentemente incontrato Scholz. Secondo lei che posizione avrà la Germania rispetto a queste richieste?

Il Cancelliere tedesco ha già affermato che qualsiasi riforma del Patto di stabilità deve essere compatibile con un obiettivo di crescita. Resta da vedere come si declinerà, nel dibattito interno alla Germania, questa dichiarazione politica e come verrà calibrato esattamente il trade-off di breve periodo tra crescita e stabilità della finanza pubblica. Penso che su questi aspetti la tecnostruttura tedesca avrà sicuramente spazio per intervenire, quindi presumibilmente vedremo un compromesso al ribasso rispetto al contenuto dei documenti di cui abbiamo parlato poc’anzi. Molto dipenderà anche dal futuro di Draghi e Macron, che finora si sono mossi molto bene sulla scacchiera europea. 

In effetti il futuro di questi due leader nazionali è molto incerto…

Macron deve affrontare le presidenziali in primavera, mentre per Draghi la situazione appare ancora più complessa, il suo futuro dipenderà dalla volontà dei partiti di sostenerlo nell’attuale ruolo piuttosto che in un altro o in nessun altro. Dall’interazione del futuro di questi due leader dipenderà il tipo di compromesso che si avrà sul futuro del Patto di stabilità. La posizione italo-francese è solida ed è stata declinata in termini non solo politici, ma anche tecnici con economisti accreditati e con le giuste tempistiche.

(Lorenzo Torrisi)

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