Un Governo che – con successo iniziale – ha usato l’apriscatole con il potere giudiziario lascerà pietrificato il duopolio televisivo? L’esecutivo che ha strappato la fetta più grossa del Recovery plan potrà ignorare l’Europa che ha appena giudicato illegale la normativa che tuttora ingabbia l’intero sistema-media italiano? La transizione digitale può tradursi nell’ennesimo cambio di decoder alle tv di casa? E la Rai teatro in queste settimane di periodico spoil system partitico è il gestore di servizio pubblico a canone che ha appena negato a milioni di italiani lo streaming delle quaranta medaglie azzurre di Tokyo 2020? Non è mancato chi ha notato che la performance in bianco e nero analogico di Tokyo 1964 fu forse migliore.
Non può stupire, comunque, che non appena insediati la nuova presidente Marinella Soldi e il nuovo Ad Carlo Fuortes, abbiano preso a circolare “rumor” in ristrutturazione per la Rai: non esclusa neppure l’ipotesi di vendita di una rete. Opzione di cui si parla da sempre, ma che da sempre risulta congelata in nome della granitica simmetria televisiva codificata nel 1990: tre reti aveva e ha viale Mazzini (modellate dalla lottizzazione Dc-Psi-Pci) e tre reti aveva messo assieme e continua a gestire Silvio Berlusconi sotto l’ombrello Fininvest.
Fu la legge Mammì a segnare l’ultimo fasto della Prima Repubblica e il suo format (pre-internet) resiste all’inizio della Terza. E nel frattempo ha contribuito non poco, con i suoi muri eretti all’interno del cortile nazionale, ad affossare l’intera media-industry italiana: che continua, ad esempio, a produrre grandi quotidiani di formato cartaceo, uno ogni 24 ore. Tutto questo mentre attorno la globalizzazione digitale ha partorito multi-monopoli, tutti non non europei: dalla raccolta della pubblicità (sempre più in rete) alla produzione e distribuzione di ogni sorta di prodotto mediatico.
È uno scenario che a Draghi può in fondo non dispiacere se vuole superare “Raiset”, con la motivazione usuale e stringente: perché il sistema-Paese è obbligato a superarlo, perché l’alternativa è solo fra cominciare a farlo – possibilmente nell’interesse del Paese – oppure attendere passivamente che gli eventi s’incarichino di cambiare le cose traumaticamente.
La nuova fase riformista dell’amministrazione Draghi prevede al momento un’etichetta-contenitore molto generale: liberalizzazioni, politica della concorrenza. È evidente che fra i settori meno liberalizzati e concorrenziali in Italia c’è quello più spazzato dalle nuove e potenti dinamiche innescate dall’innovazione tecnologica digitale. Con Gaaf e con i loro cugini bisogna saper resistere e bisogna scendere a patti.
Il piano Grande Rete promosso da Tim si è sbloccato in questi giorni, sul livello infrastrutturale dell’industria-media. Il livello della produzione dei contenuti (anzitutto giornalistici) sembra invece ancora paralizzato: ma attende – non senza ragioni – che siano Parlamento e Governo a sciogliere il nodo strutturale del duopolio televisivo. Non può che essere la politica, d’altronde, ad affrontare il doppio conflitto d’interesse sui cui si è oggettivamente fondata la Seconda Repubblica (il centrodestra innervato in Mediaset, il centrosinistra nella tv di Stato).
Solo Draghi, d’altronde, può avere la forza di aprire una crisi pilotata di Raiset, offrendo sul mercato (anzitutto a Gedi e Cairo Communication) una rete Rai. Nei giorni scorsi non ha avuto esitazioni a terremotare il centrosinistra mettendo mano al dissesto bancario di Mps. Difficile che si ponga il problema di disturbare la vecchiaia di Silvio Berlusconi: che negli ultimi dieci anni ha goduto della protezione sostanziale di tutti i governi per Mediaset, da ultimo contro Vivendi.
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