TAGLIO PROVINCE/ Il costituzionalista: il decreto del governo sancisce il fallimento della politica

- int. Vincenzo Tondi della Mura

I campanilismi territoriali si sono dimostrati più forti della necessità di cambiare un modello che la storia ci chiede di abbandonare. Parola di VINCENZO TONDI DELLA MURA

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Province al riesame. Entro fine ottobre sarà pronto il pacchetto tagli del governo. Mentre i politici in Parlamento non hanno ancora fatto nulla per cambiare il modello di organizzazione degli enti locali, l’unico impulso di cambiamento viene dall’esecutivo che ha in canna un decreto che cancellerà 64 province italiane e le relative amministrazioni. IlSussidiario.net ha intervistato Vincenzo Tondi Della Mura, docente di Diritto costituzionale all’Università del Salento, per fare il punto sull’attuale situazione. Il giudizio di Tondi Della Mura sulle mancate riforme è netto: “E’ il fallimento della politica”, ha detto. Vediamo perchè.

È di oggi la notizia che il decreto taglia-province sarà in aula alla Camera entro il 24 ottobre… 

A quanto mi risulta, nella spending review si era parlato di un “atto legislativo di iniziativa governativa”. Il che significa che dovrebbe trattarsi di un disegno di legge. Ma molto probabilmente, per evitare imboscate, il governo presenterà un decreto legge. Ormai si fa sempre così.

Lei che idea s’è fatto della vicenda?

Preso atto dell’assoluta incapacità della politica di fare qualcosa, sarà l’inevitabile decisione di un governo tecnico a cambiare le cose.

Come si spiega questo fallimento della politica, che solo ora è giunto sotto gli occhi di tutti?

Vede, in tutta la nazione le forze politiche sono ovunque favorevole al taglio delle province… purché si tratti di quelle degli altri. Quando si tocca la propria, allora c’è la ribellione. Sia la politica, sia l’antipolitica hanno paura di perdere consensi per effetto della violazione dei campanilismi. E nessun partito ha il coraggio di intervenire per cambiare le cose. Per questo a decidere sarà un governo di tecnici.

E i politici cosa fanno intanto?

La verità è che i singoli partiti e tutte le forze territoriali stanno trattando sottobanco con il governo. Ma finora solamente quattro regioni hanno fatto una proposta di riordino delle province. E ciascuna di queste prevede delle deroghe ai criteri stabiliti. Significa che sono proposte a tutela dei singoli campanilismi. E che verranno bocciate dal governo.

E le altre 16 regioni?

Le altre, sotto pressione, non sono nemmeno state capaci di formulare una proposta. Non ne hanno fatta nessuna.

Come giudica il doppio requisito richiesto dal governo dell’estensione per almeno 2500 km quadrati e della presenza di almeno 350 mila abitanti ai fini dell’esistenza di una provincia?

Sono i criteri che ha dato il governo e non potevano che essere quantitativi. Si tratta di un livello minimo che ha lo scopo di garantire un’azione territoriale equa, efficace ed efficiente. Si vede che al di sotto di quel minimo il governo ritiene che ci siano sprechi di risorse.

Sono dunque buoni parametri?

Questo è un problema politico. Si poteva anche chiedere di più, come le macroregioni. Ma evidentemente il governo non ha avuto la forza necessaria per farlo. A mio avviso è naturale una evoluzione verso le macroregioni (non per forza solo tre) e province più ampie.

Pisa non accetterà mai di andare con Livorno, né Savona con Imperia, per non parlare dell’aggregato Como-Lecco-Brianza-Varese. Che succederà?

È proprio questo il problema: il fallimento di una politica che non vuole accettare i sacrifici necessari per cambiare le cose.

In Basilicata, Umbria e Molise invece si passerà a province uniche che coincideranno con il territorio della regione di appartenenza. Ma allora a cosa servono l’una e l’altra istituzione?

È un fatto che pone il tema dell’inutilità delle regioni piccole. Queste ultime potrebbero essere accorpate con altre regioni per fare politiche regionali di più ampio respiro.

Tra la Lombardia e la Sicilia non ci sono solo 1500 km di distanza, ma anche diversissimi modelli di amministrazione con notevoli differenze in termini di risultati conseguiti e di riduzione delle inefficienze. Come si gestiscono queste differenze?

Il problema qui è un altro: l’esistenza delle regioni a statuto speciale non ha più alcuna ragion d’essere. Le regioni a statuto speciale sono nate, infatti, per determinate esigenze di carattere storico e geopolitico che oggi non esistono più. A fronte dell’autonomia economica e del federalismo riconosciuti dalla riforma del Titolo V, godono di una disciplina speciale sui trasferimenti che non è più giustificabile. E questo, ancora una volta, è un problema di carattere politico. Ma quale governo, mi domando, sarà in grado di eliminare la specialità che la Costituzione del 1948 riconosce a quelle cinque regioni?

Già quale?

Non lo so. Finora il governo Monti ha almeno spinto per l’associazione dei piccoli comuni e sta lavorando al riordino delle province. Resta aperto il tema delle Regioni, ma nessuno lo tocca. Il problema vero è l’irresponsabilità della politica che è stata favorita da una riforma istituzionale che ha eliminato ogni tipo di controllo.

 

(Matteo Rigamonti)







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