È profezia piuttosto facile che il tema della riforma del sistema elettorale e di alcune istituzioni politiche (anzitutto il bicameralismo) sia destinato ad occupare un posto significativo nell’agenda della politica italiana anche per il 2014. Ed è verosimile che anche nei prossimi mesi i due profili della questione – la riforma elettorale e quella costituzionale – continuino ad essere intrecciati fra loro come lo sono stati nello scorso anno.
Che la riforma elettorale sia un compito urgente non ha bisogno di particolari spiegazioni, soprattutto dopo che lo scorso 4 dicembre la Corte costituzionale, con un suo comunicato, ha annunciato di aver dichiarato costituzionalmente illegittima la legge elettorale, colpendone in particolare due meccanismi: il premio di maggioranza e le liste bloccate. Non è ancora chiara, al momento, l’esatta portata di quella decisione del giudice delle leggi, che sarà nota solo dopo il deposito delle motivazioni, previsto per la prima metà di gennaio. Tuttavia è probabile che l’intervento demolitorio della Corte abbia prodotto un sistema elettorale proporzionale, senza premi di maggioranza, con clausole di sbarramento di entità molto ridotta e con un voto di preferenza: un sistema abbastanza simile a quello che ha governato le elezioni politiche dal 1948 al 1992; ma soprattutto un sistema che riprodurrebbe fedelmente in Parlamento la forza ottenuta dai partiti nel voto, generando una situazione di governabilità assai difficile. Le alternative che si aprono per le forze politiche sono dunque molteplici. Quella di fondo è fra un sistema elettorale di impianto proporzionale, ma con correttivi più incisivi rispetto a quelli risultanti dalla sentenza della Corte, e un sistema a vocazione più nettamente maggioritaria.
La prima opzione potrebbe essere quella di un sistema simile a quello tedesco, che attribuisce il 50 per cento dei seggi mediante collegi uninominali maggioritari a turno unico (nei quali, dunque, vince il candidato – generalmente presentato da un partito – che ottiene il maggior numero di voti) e il rimanente 50 per cento mediante liste regionali di partito, assegnandoli in ragione proporzionale a tutte le liste che abbiano superato su scala nazionale il 5 per cento dei voti, ma con la specifica finalità di proprozionalizzare il risultato complessivo.
Si tratta dunque di un sistema proporzionale, ma “personalizzato” e corretto: l’elettore sceglie direttamente nel suo collegio nominale il candidato di partito da lui preferito e al tempo stesso contribuisce a determinare il riparto complessivo dei seggi su scala nazionale; l’esclusione delle liste che non raggiungono il 5 per cento dei voti evita una frammentazione eccessiva (con questo sistema, in Germania il numero di partiti rappresentati in Parlamento nel dopoguerra è oscillato fra tre e cinque).
Il principale difetto di questo sistema per molti esponenti politici italiani (ad es. per Matteo Renzi) è che esso non assicura la formazione di una maggioranza la sera stessa delle elezioni, ma rende necessarie coalizioni post-elettorali, le quali in Italia potrebbero rivelarsi più complesse che in Germania.
Per questo motivo non pochi guardano a soluzioni che, premiando in maniera non proporzionale la forza o le forze politiche principali, legittimino una maggioranza parlamentare (e quindi un governo, un programma ed un Premier) direttamente mediante il voto dei cittadini. A questo obiettivo erano, in fondo, ispirate sia la legge Mattarella, sia il sistema elettorale dichiarato di recente costituzionalmente illegittimo (il cosiddetto Porcellum), che del resto è per vari aspetti simile ai sistemi utilizzati nel nostro Paese a livello comunale e regionale.
Dopo l’uscita di scena del Porcellum, le alternative sembrano oggi ridotte ad una sua riproduzione con un meccanismo a doppio turno e l’introduzione delle preferenze e il ritorno alla legge Mattarella. Quest’ultima sarebbe forse preferibile, in quanto basata sui collegi uninominali, invece che sulle preferenze (i cui effetti deleteri, in termini di costi della politica e di inquinamenti mafiosi della campagna elettorale non dovrebbero essere sopravvalutati), ma essa, in un contesto tri- o quadri polare, come quello attuale, rischierebbe di non produrre una working majority nel prossimo parlamento.
Ma, soprattutto, sia la soluzione di un “Porcellum a doppio turno”, sia quella del ritorno alla legge Mattarella, si scontrano con il principale problema istituzionale tuttora aperto in Italia: quello della riforma del bicameralismo. Infatti, nel sistema attuale il governo deve disporre di una maggioranza sia alla Camera che al Senato, tanto per poter nascere, quanto per realizzare il suo programma. Ma Camera e Senato sono oggi eletti da due corpi elettorali diversi (gli infraventicinquenni non votano per eleggere l’assemblea di Palazzo Madama) e questo dato, affiancato ad un assetto politico multipolare, rischia di produrre maggioranze diverse nelle due Camere. Con un sistema che attribuisca il premio di maggioranza a doppio turno, il rischio è addirittura che tale premio sia attribuito a due partiti o coalizioni diverse nelle due Camere.
Per questi motivi, la riforma elettorale dovrebbe essere affiancata ad una riforma costituzionale minimale, mirante quantomeno a superare il bicameralismo perfetto. Solo su questa base è possibile la ricerca di un sistema elettorale che produca governabilità, ma si faccia carico, al tempo stesso, dell’esigenza di riavvicinare ai cittadini i loro rappresentanti e di garantire che le Camere riflettano almeno in parte l’assetto politico plurale del Paese, evitando distorsioni eccessive.
Si tratta, come è ben evidente, di un’impresa tutt’altro che facile, che la propensione al tatticismo della classe politica italiana rischia di rendere ancora più ardua. Essa è tuttavia il compito ineludibile dell’anno che sta arrivando.