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Home » Politica » SPILLO/ L’annuncio di Renzi che può deludere 6,6 milioni di italiani

  • Politica

SPILLO/ L’annuncio di Renzi che può deludere 6,6 milioni di italiani

Giorgio Fiorentini
Pubblicato 3 Gennaio 2016
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Infophoto

Il premier ha annunciato he la riforma del Terzo Settore sarà realizzata nel 2016: un'attesa che ha deluso troppe volte 6,6 milioni di italiani impegnati. GIORGIO FIORENTINI

Il premier Matteo Renzi, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha annunciato che il 2016 sarà l’anno dei valori e ha collegato questa affermazione anche alla riforma del Terzo settore. In seguito ha quantificato il valore di interesse del Terzo settore in “5 milioni di italiani che ci partecipano”. Ancora un effetto annuncio o una promessa destinata a essere mantenuta nel 2016? Speriamo proprio la seconda opzione considerando sia i tempi biblici della riforma del Terzo settore in discussione al Senato, sia il dato che circa un italiano su otto svolge volontariato a beneficio di altri o della comunità.


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Il dossier Istat sulle “attività gratuite a beneficio di altri” stima che i volontari sono quantificabili in 6,63 milioni di persone (12,6%) e i cittadini che svolgono la loro attività in un gruppo o in un’organizzazione sono 4,14 milioni (tasso di volontariato organizzato pari al 7,9%) e tre milioni si impegnano in maniera non organizzata (tasso di volontariato individuale pari al 5,8%). Tutti dati che dimostrano quanto il volontariato sia importante nel nostro Paese, ma nel contempo rendono urgente la riforma del Terzo settore per non deludere le aspettative. Peraltro il saldo fra il censimento 1999 e quello del 2011 è di circa 1 milione di volontari in più e 64.000 dipendenti in più.


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Il Terzo settore in Italia ha un giro d’affari di circa 70 miliardi di euro, un fatturato pari al 4,3% del Pil, superiore all’intero settore della moda “made in Italy”. L’indagine stima in oltre 700mila il numero di persone impiegate nel Terzo settore, con un incremento nel decennio di circa il 35%. Un altro dato significativo è la tenuta delle entrate anche nel periodo di crisi 2008-2011, soprattutto grazie al contributo dei privati. Al di là di questi dati, che spesso possono essere una specie di cortina fumogena utile a qualificare la valorialità del sistema nazione, è necessario dare concretezza alle promesse fatte sulla riforma del Terzo settore. Le imprese sociali devono avere un riconoscimento in termini di politica economica nazionale ed è necessario che istituzionalmente si riconosca il settore non tanto come stampella del sistema pubblico, ma come parte integrante del sistema stesso. Basta con il Terzo settore solo nella sua funzione riparativa ed emergenziale! Dal punto di vista economico-aziendale tutte le organizzazioni del Terzo settore sono imprese sociali che esprimono la loro formula imprenditoriale per raggiungere i fini sociali presenti nel dna delle persone che in esse partecipano e “lavorano” e negli statuti.


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Tutte le organizzazioni non-profit (smettiamo di usare no profit che nega la possibilità di avere utili da reinvestire) si avvalgono di strumenti aziendali per raggiungere la “sacralità dei fini” sociali. È sotto gli occhi di tutti che le non profit meglio organizzate, con un buon marketing e fund raising, con una gestione controllata sui costi, con una gestione dei volontari che si avvale di strumenti di gestione dei volontari stessi come risorse qualificate, con un’equilibrata gestione finanziaria hanno una capacità di mantenimento e sviluppo superiore a quella delle non profit che si basano solo sull’indispensabile motivazione valoriale. Le non profit sono da considerarsi imprese sociali “di sistema” che si integrano con le imprese sociali “ex lege” (L. 118/2005, D.Lgs. 155/2006), ora in evoluzione con l’art. 6 del ddl sulla riforma del Terzo settore approvato dalla Camera dei deputati.

In sintesi, il denominatore comune è il concetto di impresa sociale che ha come finalismo il risultato sociale per la nazione e per il welfare allargato che può mantenere il suo valore universalistico se lo Stato lo garantisce con la sua funzione di programmazione congiunta con le imprese sociali (non profit e profit), regolatoria e di mediazione. In caso contrario avremo un ottimo costrutto psico-sociologico, ma una carente funzionalità sociale. Nel ddl approvato all’art. 6 (Impresa sociale) si definisce giuridicamente come impresa sociale (evoluzione anche funzionale di quella “ex lege”) una “impresa privata con finalità d’interesse generale avente come proprio obiettivo primario la realizzazione di impatti sociali positivi mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale, che destina i propri utili prevalentemente al raggiungimento di obiettivi sociali e che adotta modalità di gestione responsabili, trasparenti e che favoriscono il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività”.

Se analizziamo in modo puntuale la definizione si possono fare alcune considerazioni:

“impresa privata con finalità d’interesse generale”: tutto il Terzo settore è composto da “aziende” private (per chiarire: l’azienda è lo strumento operativo utile per raggiungere i fini degli istituti economico sociali della famiglia, impresa e delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni non a scopo di lucr ) che sono finalizzate al welfare del sistema paese;

“la realizzazione di impatti sociali positivi”: sarà necessario definire una metrica per misurare l’impatto sociale;

“destina i propri utili prevalentemente al raggiungimento di obiettivi sociali”: la destinazione dei propri utili implica politiche di investimento e di scelte di spese di funzionamento correlate a obiettivi sociali da definire in termini qualitativi e quantitativi. Il che prevalentemente sarà correlato ai risultati sociali conseguiti;

“adotta modalità di gestione responsabili,trasparenti e che favoriscono il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività”: le modalità responsabili attengono alle funzioni “aziendali”, nella logica della responsabilità sociale, che dovrebbero essere già “in re ipsa” in un’impresa sociale (risparmio energetico, tutela dell’ambiente, pari opportunità, politiche retributive equilibrate, ecc.).

In tempi non sospetti (cinque anni fa) si avanzò la proposta per l’intervento di imprese sociali non profit come “rescue company” e di salvataggio di imprese profit in crisi o in cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria (Cig, Cigs). Altro punto saliente è la previsione a forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione (con un tetto, limite, “cap”) che apre al finanziamento dei privati (singoli, imprese, Pubblica amministrazione). Questa opzione permette di accogliere i finanziamenti privati non solo come filantropia, ma anche come investimento in un settore, quello delle imprese sociali, che uscirebbe dall’agiografia estetico residuale del settore stesso.

Fra le opportunità sottolineo quella delle imprese sociali per le public utilitiy (gas, energia, acqua, ecc.). Questa opzione è collegata con la possibilità, per le imprese private e per l’amministrazione pubblica, di assumere cariche sociali nella governance delle imprese sociali. La salvaguardia e i divieti di assumere la direzione, la presidenza e il controllo sono un modo, non esaustivo, di tutelare la “sacralità” dei fini e della gestione dell’impresa sociale.

Presidente Renzi, se ci sei, al di là dell’effetto annuncio, “batti un colpo” (quello dell’approvazione della riforma del Terzo settore) al fine di dare concretezza ad affermazioni che considerano il 2016 come l’anno dei valori per il tramite dell’approvazione della riforma del Terzo settore.


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