Un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per essere commissariato. Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare. In attesa che il patto M5s-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle, per andare a Palazzo Chigi. C’entrano le due cose? Eccome, secondo Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano.
Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: facciamo anche noi il 2,8% come loro. Alla luce di quanto accaduto fino ad oggi, però, noi non abbiamo potuto fare quello ha fatto la Francia: perché?
Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa, è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011. E quindi le va lasciato margine di manovra. Senza la foglia di fico francese dell’asse franco-tedesco sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato in Europa: e l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti.
Vuol dire che in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio?
Proprio così. Una libertà di bilancio e di spesa che, però, stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica, si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero. Se io spendo di più perché la Commissione mi lascia margine, ma questa spesa viene fatta comprando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno dei miei, io posso tirare a campare politicamente — come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo —, ma non faccio altro che aggravare la situazione ed accumulare passivi sull’estero. E questo è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che dopo sforamenti superiori al 5% che noi ci sogneremmo, è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna.
Il 70% dei francesi si dice “scontento” del presidente, contro il 66% di agosto. Cos’ha fatto di male Macron?
Beh, mettiamola così e guardiamola dall’esterno. In Europa c’è un paese che sfora da oltre 10 anni il tetto del 3% sul rapporto debito/Pil e festeggia quest’anno il 2,8; è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero; ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano; ha una disoccupazione stabile al 9% (noi attorno all’11) con una manifattura ormai secondaria nel continente; è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscito a parole con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e riunione; riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno fatta apposta per drogare il consenso del vincitore e sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di En marche dovrebbe essere netta e sicura. A fronte di tutto questo ci stupiamo che Macron abbia problemi di popolarità?
Eppure, i francesi ormai sembrano proprio avercela con lui.
Guardi, se aggiungiamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quel consenso, si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia, direi che gli sta andando ancora bene.
Non hanno pesato anche gli scandali?
Se in Francia nelle scorse settimane è uscito lo scandaletto sulla guardia del corpo Benalla non è perché, a un tratto, la vita privata di Macron sia diventata un punto centrale del dibattito politico francese. E’ solo perché in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica, l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni. Ed è per le caratteristiche di un sistema senza sfiducia che poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato. Detto questo, però, bisogna tener conto che la Francia ha un’altra importante risorsa.
E quale sarebbe, visto il quadro impietoso che ha esposto?
Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione, la force de frappe, nonostante le figurucce rimediate in Siria, è l’unica a disporre di un deterrente nucleare ed è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti parlando di Unione di Difesa sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa. Tant’è vero che da qualche settimana in Germania, visti gli eccellenti rapporti dell’Unione con l’amministrazione americana, si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia. Il che dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa. Il punto è che a prevenire la guerra in Europa non è mai stata l’Unione Europea, come continua a ripetere quella classe politica stralunata, ma la Nato.
E come si può invadere la Ruhr o la Polonia se si è tutti nel comando integrato Nato?
Appunto. E’ un bel mistero, che però illumina il fatto che pace ed Europa vanno identificate per ragioni di propaganda, tanto per spaventare un po’ la gente. C’è poi un terzo elemento da considerare: la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa (Comunità finanziaria africana, ndr), perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia: e, guarda caso, stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra. Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce, guarda caso, nelle sue ex-colonie? Se consideriamo questi tre elementi non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio. A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse.
E che posto abbiamo noi in questo gioco di poteri?
La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche. Ha mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante. Qualcuno si è mai chiesto per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della Nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?
“Siamo un paese sovrano esattamente come la Francia” ha detto ancora Di Maio. “I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia”. Lo chiedo a lei: o noi non siamo in realtà così sovrani, oppure ci sono paesi più sovrani degli altri. Cosa sceglie?
Scelgo di dire che non siamo poi così sovrani per il semplice fatto che ci sono paesi più sovrani degli altri. E impostare in termini puramente contabili i rapporti politici tra Stati — concepire, insomma, l’Unione come una comunità di debitori e creditori — è soltanto un modo per rendere accettabile questa situazione. E per nascondere la realtà dei rapporti egemonici instauratisi dopo la crisi del 2010-2011. E’ divertente ricordare che il padre del diritto internazionale moderno, Heinrich Triepel, dopo aver elaborato la più compiuta teoria dei trattati di sempre abbia sentito il bisogno di scrivere due volumi sul concetto di egemonia, senza aver neanche letto Gramsci. Non si può ragionare di Unione Europea e di Trattati europei senza ragionare di egemonia: solo che questa egemonia oggi viene presentata come un problema di “attuazione” dei Trattati. Il problema è che non esiste un solo e unico diritto dei Trattati, ma ne esistono 27 diversi, uno per ogni Stato dell’Unione. Quello che ci tocca nella realizzazione del grande “sogno europeo” è quello che abbiamo sotto gli occhi. E non è un granché per noi.
In Germania AfD guadagna consenso. Secondo lei perché? Cosa rimproverano gli elettori tedeschi al sistema e ai politici che hanno garantito stabilità e ricchezza?
Il successo di AfD è solo la manifestazione tedesca della stessa malattia che in Italia ha portato alla fine del Pd e di Forza Italia; che in Francia ha portato all’affermazione del “Manchurian candidate” Macron e alla dissoluzione del sistema politico della V Repubblica; che in Austria e Svezia ha portato avanti i partiti cosiddetti nazionalisti e populisti e via dicendo. E cioè il più classico tradimento delle élites nei confronti di chi élite non è. Si crede che la Germania sia il paese vincitore in Europa: in realtà ad essere vincitore è soltanto un blocco industriale e finanziario che dell’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vario paesi d’Europa.
Ci dà per favore un elemento a sostegno di questa tesi?
In Germania dal 2004 al 20015 il decile superiore in termini reali ha guadagnato il 17% in più rispetto a quindici anni prima. E, sempre in termini reali e nello stesso periodo il decile più basso ha perso il 14%. Con il risultato che l’elettore di AfD viene presentato dalla stampa nostrana al pari dell’elettore francese della Le Pen, dell’inglese che ha voluto uscire dall’Unione e dell’italiano che vota Lega o 5 Stelle. E cioè un sottoculturato che vive in aree rurali o depresse del paese, che coltiva risentimento verso il nuovo che avanza, che non sfrutta le infinite possibilità del mercato e della moneta unica, che vuole recedere nel tribalismo nazionale. Ma chi fa questi discorsi si dimentica di dire che la libertà di circolazione dei Trattati è in realtà libertà di emigrazione e si dimentica anche che spostare merci, capitali e servizi è cosa ben diversa dallo spostare persone. Le lattine di birra di diverse nazioni possono coesistere benissimo sullo stesso bancone. Capitali di provenienza diversa possono confondersi nello stesso conto bancario. Far coesistere persone di diverse nazioni — magari nello stesso condominio e in condizioni di nuova povertà rispetto ad un passato recente — è cosa un po’ diversa.
E allora si capisce che a votare per questi partiti è il ceto medio di un decennio fa che ora, oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali.
Proprio quello. Non ci fossero ogni tanto skinheads e saluti nazisti per insultare questo ceto medio impoverito e precarizzato bisognerebbe inventarseli. E infatti skinheads e saluti nazisti non funzionano con l’altra formazione in crescita in Germania, che è poi l’Aufstehen di Sahra Wagenknecht e Oskar Lafontaine che pongono gli stessi temi di AfD però da una posizione di sinistra classica. Bisognerà inventarsi qualcosa anche lì.
In Italia non risulta sufficientemente chiaro come un regime liberale come quello europeo comprima — e perché — la politica economica, fino ad azzerarne quasi totalmente il margine di manovra. Cosa c’è di male, verrebbe da dire a Di Maio e a Salvini, nell’essere più risparmiosi e più virtuosi?
C’è che questi sono semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico. Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano e il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino divorzio Tesoro-Bankitalia. Il punto è che la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta esattamente come le famiglie e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività.
E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro?
Sì; la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse. Dovremmo ringraziare a lungo chi ci ha portati in questa situazione, che ha ucciso ogni libertà politica. E cioè la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto. Certo, oggi si può ancora votare, ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo zero virgola e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione.
Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante, per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino. Il governo può averne ragione, se il ministro Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”?
Tria, come ogni ministro del Bilancio da Maastricht 1992 in poi, si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare quando vanno a votare e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di stabilità al Fiscal compact. Gli interlocutori di Tria non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza. E a buon diritto. L’unica domanda è: noi quando smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre — malamente e con quello che passa il convento, che non è proprio granché — i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno.
(Federico Ferraù)