SCENARIO/ Le due rivoluzioni (che mancano) in M5s e Pd dopo il voto in Abruzzo

- Mario Barcellona

I risultati delle elezioni regionali in Abruzzo confermano quel che molti pensano e che pochi dicono apertamente, soprattutto negli elettorati di M5s e Pd

luigi_dimaio_salvini_1_lapresse_2018 Luigi Di Maio e Matteo Salvini sullo sfondo (LaPresse)

I risultati delle elezioni regionali in Abruzzo confermano quel che dicevano i sondaggi, che tutti avrebbero dovuto sapere e di cui pochi, anche ora, vogliono prendere atto; e, soprattutto, quel che molti pensano e che pochi dicono apertamente.

Dai numeri si possono trarre quattro considerazioni.

La prima è che, traducendo il 27,52% dell’Abruzzo in termini nazionali, la Lega scavalca il 30%.

La seconda e che il 9,6% di Forza Italia, in ragione del peso residuo delle vecchie clientele locali, dice che in un’elezione nazionale questo partito starebbe notevolmente sotto il 10%; che il 6,5% di Fratelli d’Italia è evidentemente drogato dalla candidatura del presidente, sicché, insieme, difficilmente supererebbero l’11-12%.

La terza è che, sommandovi il 5,5% di Legnini (ancorché dopo averlo scontato del voto personale: è stato presidente del Csm) e anche aggiungendovi l’1,3% di Centristi per l’Europa e qualche frazione delle liste minori (non il 2,7% di Leu e neanche le piccole percentuali delle molte liste assolutamente locali e “personali”), l’11,1% del Pd vale sul piano nazionale, nel migliore dei casi, non più del 17-18%.

La quarta è che il 20,2% del M5s, anche ove recuperasse una parte dell’astensione cresciuta dell’8,5%, in un’elezione nazionale non supererebbe il 25%.

Quello di cui non si vuole prendere atto apertamente sono invece i seguenti quattro fattori.

Il primo è che Salvini ha conquistato circa un terzo dell’elettorato.

Il secondo è che Berlusconi non ha alcuna chance di contrastarlo e che se lo mollasse subirebbe una diaspora definitiva, decretando la fina automatica di FI.

Il terzo è che il Pd non ha, allo stato, alcuna speranza di recuperare in modo significativo i voti sottrattigli dal M5s, che vanno a Salvini o accrescono l’astensione.

Il quarto è che il M5s è in fortissimo declino e che, però, difficilmente andrà sotto i voti raccolti nel 2013.

Quanto precede prefigura, in caso di elezioni anticipate, tre conseguenze, pressoché ineluttabili.

La prima è che Salvini conquisterebbe la presidenza del Consiglio, non importa se – come è più probabile – con l’appoggio del tutto subalterno di Berlusconi e compagnia o – come non si può escludere – ancora con l’appoggio, ben più subalterno di quello attuale, del M5s.

La seconda è che il M5s si ritroverebbe nella drammatica situazione di dover scegliere tra il rinnovo dell’alleanza con chi lo ha svuotato di almeno un quarto del suo elettorato (sempre che Salvini non opti per la pattuglia berlusconiana, più omogenea e addomesticabile), rimanere isolato in un’opposizione sterile e soprattutto dimagrante oppure rivolgersi altrove.

La terza è che il Pd, allo stesso modo ma in una condizione ancora più grave, si ritroverà stretto nella medesima alternativa tra allearsi con la Lega (essendo la pattuglia berlusconiana ormai, con ogni evidenza, definitivamente ed irrecuperabilmente insufficiente a colmare il gap con Salvini), rimanere isolato in un’opposizione che non solo sarebbe sterile ma ne sancirebbe la pratica scomparsa o guardare altrove.

Quel che quasi nessuno dice ma che solo gli sciocchi possono non aver capito è che l’establishment ha già fatto la sua scelta, che essa prevede l’intronizzazione di Salvini (poco male se ormai incontrastabile da Berlusconi, che però lo aiuta ad ottenere un biglietto d’ingresso in Europa) e l’espulsione del M5s e che i mezzi di comunicazioni più influenti, prendendo di mira sempre più i pentastellati, enfatizzando tutte le ragioni di loro conflitto con Salvini e così mettendo sempre più cunei nell’alleanza di governo e battendovi sopra con sempre maggior forza, lavorano a questa ipotesi.

La ragione è scappata ad una brava giornalista nella maratona sulle elezioni abruzzesi: in fondo la Lega, non solo in Veneto e Lombardia ma anche nelle attuali rappresentanze ministeriali (e non solo per il citatissimo Giorgetti), è fatta di persone competenti, aduse alle istituzioni e, soprattutto, sicuramente “ragionevoli”, mentre il M5s è composto da gente che viene da un “altro mondo”, che non ha competenze ed esperienza istituzionale, che parla un’altra lingua e non ha le giuste frequentazioni, e sulla cui ragionevolezza, proprio per questo, non si può proprio far conto.

Questo quadro non sembra destinato a cambiare nel breve periodo, neanche in presenza di gravi difficoltà dell’economia, perché Salvini ha fatto capire in tutti i modi che il reddito di cittadinanza per la Lega non si sarebbe dovuto fare, che, al contrario, la Tav sarebbe da fare senza se e senza ma e che la Banca d’Italia si merita qualche rimbrotto ma, alla fine, deve essere lasciata in pace, e cioè ha già mandato tutti i segnali che si aspettavano e che gli guadagnano la promozione a gestire anche un’eventuale situazione di crisi.

D’altronde, chi gli dovrebbe contendere il passo continua a non mostrarsi in grado di farlo.

Il M5s soffre di una carenza cronica di leadership, di un’incomprensibile chiusura ad ogni intellettualità e dunque all’acquisizione di un’identità politica definita, quand’anche innovativa. Non è possibile insistere in un trionfalismo di facciata quando il proprio popolo vede e capisce che il suo mondo è ancora com’era, che l’emergenza delle sue frange più sfortunate sarà, sì, tamponata ma che la povertà, lo scivolamento sociale e la solitudine sono ancora lontane dall’essere debellate (seppur comprensibilmente, dato che non si può far tutto dall’oggi al domani). Non è possibile svendere la bandiera del reddito di cittadinanza cercando di mascherarla come intervento propulsivo e di avviamento al lavoro invece di spiegare a tutti che il soccorrere chi non ce la fa è una misura che preserva il minimo della dignità di queste sventurate persone nel nome di un’irrinunciabile solidarietà umana. Non è possibile metter su vergognose farse, come quelle del fantomatico dossier sulla Tav, della comica guerra alla Francia o dell’improbabile affratellamento con i gilet gialli, dimenticando che i veri interlocutori non sono le poche migliaia di adepti della piattaforma Rousseau ma un popolo che si sente escluso, solo e privato della democrazia. Solo che per passare al linguaggio della verità, che compostamente additi gli obbiettivi da raggiungere, le difficoltà da superare, i tempi necessari ma anche le tappe attraverso le quali raggiungerli, ci vuole una visione della società, che richiede di mobilitare gli intelletti, una direzione che metta al posto dell’estemporaneità l’autorevolezza e un’organizzazione di militanti capaci che si dedichino a capire e a farsi capire.

Cose analoghe valgono anche per il Pd: anch’esso afflitto da una dirigenza che assomiglia ad una muta di galli un po’ spennacchiati, i quali a tutto pensano meno che a cambiare un pollaio che ha finito per proteggere più le volpi che le galline, ed anch’esso altrettanto privo di ideazione, da quando ha chiuso i centri di ricerca del vecchio Pci e ne ha delegato i compiti, e cioè il pensare, all’establishment, ai mass-media e ad un’intellettualità che allo sforzo di capire il mondo antepone il rapporto con l’uno (l’establishment) e con gli altri (i mezzi di comunicazione) che il rimanere nel mainstream spera le assicuri. Non si può combattere senza tregua il reddito di cittadinanza con le stesse parole della destra più cinica, per declamare solo vuote parole sulla povertà. Non si può vedere il nemico da battere nel “decreto dignità” non per la sua insufficienza ma nel nome dei presunti 8mila posti di lavoro a rischio, quando la precarietà è il male di questo tempo. Non si può tifare smaccatamente per gli insulsi burocrati europei, per le impennate dello spread o per le stilettate (o bordate) antigovernative di istituzioni economiche in altri momenti a dir poco disattente, quando sono in gioco la dignità minima del paese o le condizioni finanziarie imprescindibili per sollevare appena un po’ le povertà estreme dalla più cruda desolazione.

Anche in questo caso per lasciare il porto di un’opposizione che sa essere solo miserabile e prendere il largo nel mare grande della politica ci vuole una nuova dirigenza, che invece dell’ennesima paralizzante intesa fra leaderini si proponga, senza temere di perdere, come radicale alternativa a quanto ha portato alla clamorosa sconfitta (dell’intera sinistra europea), che neanche cerchi l’abiura travestita degli altri ma punti piuttosto sulla propria ferma convinzione, che dica chiaro, credendoci, che con la destra, fosse anche solo berlusconiana, non si va. E ancor di più ci vuole un nuovo pensiero, che affronti le questioni delle povertà, della precarietà, della solitudine, del Sud e delle periferie e di un’altra Europa, mettendone a fuoco i problemi ed immaginandone soluzioni che non finiscano nel solito ritornello della crescita (che – va detto – nei termini in cui viene ancora proposta finisce per ingrassare solo gli obesi), che permetta di ricostruire il rapporto con il sindacato esigendone in cambio la sua stessa riforma e che per far tutto questo torni ad avvalersi di un’intellettualità disinteressata che pur ancora rimane, e torni ad organizzarsi entro strutture stabili, aperte, politicamente interrogate e meditatamente ascoltate. E ci vuole, infine, che su queste basi si allontanino dalle articolazioni territoriali i detentori di “pacchetti di voti” che le hanno occupate e si insedino volti nuovi selezionati soltanto dalle iniziative solidali e civili e dalla passione politica, che prendano a parlare con la società credendo in quel che dicono perché solo così possono essere nuovamente creduti.

Che tutto questo avvenga non è affatto facile, anzi. Ed anche ove avvenisse, M5s e Pd non potrebbero, nel breve tempo che pur si impone, competere con la destra raggruppata intorno a Salvini (e supportata da un establishment che non gradirebbe molto simili loro riqualificazioni). Entrambi, quindi, debbono mettere nel conto di volgersi altrove.

E questo altrove non può essere, alla fine, che reciproco. Si dice che due debolezze non fanno una forza. E sarebbe così. Ma, se queste due debolezze si sono riqualificate ed hanno ricompreso le loro identità, non è detto che vada necessariamente così.







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