Federico Stella insegnava che lo Stato che non demorde, che va avanti comunque, anche per un tempo illimitato, è uno Stato in cui a primeggiare non sono i diritti individuali, ma i poteri dell’autorità. Queste parole, così drammaticamente, al contempo, semplici e vere, sembrano essere state dimenticate dalla classe politica che ha voluto imporre l’interruzione “per sempre” della prescrizione del reato, una volta pronunciata la sentenza di primo grado.
Attenzione. Anche nel caso di sentenza di assoluzione nel primo grado di giudizio. Qualunque cittadino, dunque, può essere – dal 1° gennaio 2020, con la nuova riforma sulla sospensione della prescrizione – “imputato” a vita, anche quando un giudice abbia ritenuto di assolverlo, ma una Procura della Repubblica piuttosto ostinata (per usare un eufemismo), decida di non arrendersi, impugnando l’assoluzione e così creando una situazione di attesa per il malcapitato, attesa che potrebbe non finire mai.
La materia penalistica si caratterizza da sempre per un certo disinteresse dei cittadini, viene vissuta come una materia per tecnici che non “tocca” chi si comporta bene e rispetta le leggi. Anzi, per essere più precisi, la tendenza è quella di avallare provvedimenti sempre più severi, “pulsioni emotive di punizione”, come dice Giovanni Fiandaca, alimentate da sentimenti collettivi di paura, rabbia e frustrazione, tipici delle fasi storiche di crisi come quella in cui viviamo. Un sociologo francese, Didier Fassin, dice che punire è una passione contemporanea.
La politica, quella vera, quella seria, dovrebbe invece non cavalcare sentimenti palesemente emotivi, ma “dirigere” la collettività, indicando orizzonti di benessere sociale nel rispetto delle garanzie individuali e della cornice costituzionale.
Il tema in discussione, a ben vedere, ovvero l’eliminazione legislativa di un termine entro il quale lo Stato deve esercitare la propria pretesa punitiva, non è di poco conto: coinvolge il rapporto tra diritti e autorità, equilibrio essenziale per la tenuta di ogni democrazia.
L’opinione diffusa, si diceva, è nel senso che la prescrizione è una concessione a vantaggio solo di furbi e benestanti, che potendosi permettere avvocati maestri nel trovare grovigli (come ritiene il ministro della Giustizia, peraltro avvocato) riescono a sottrarsi alla giustizia. Un eccesso di semplificazione: non solo perché, com’è stato rilevato recentemente, è statisticamente irrisoria (tra l’1% e il 2,3%) la percentuale dei giudizi penali la cui trattazione viene rinviata per motivi riguardanti l’imputato o il suo difensore; ma soprattutto perché la Costituzione prevede la presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino a sentenza di condanna “definitiva”.
Carnelutti insegnava che il “processo è pena”, spesso più lacerante di quella inflitta al termine del giudizio. Riguarda indifferentemente colpevoli e innocenti, tutti ne possono venire coinvolti, basti pensare al pervadere di legalità penale nell’attività di impresa, densa di insidie fiscali, contributive o connesse agli appalti e così via che possono sfociare nella contestazione di reati.
Ciò è di per sé sufficiente per comprendere come non possa essere accettato che la “pena” del processo sia “per sempre”. Senza dimenticare, poi, che la Costituzione all’art. 111 afferma che la legge assicura la ragionevole durata del processo, tanto da far apparire la nuova disciplina, anche sotto il profilo della “tenuta” costituzionale, temeraria e barcollante. Per usare le parole di Carlo Nordio, una “mostruosità”.
Sempre Giovanni Fiandaca, grande maestro del diritto penale, ha ricordato come man mano che aumenta la distanza temporale tra il reato commesso e il momento in cui interviene la condanna decresce anche la necessità pratica di punire; questo perché con il passare degli anni sfuma l’allarme sociale e soprattutto perché la persona che ha commesso il delitto può essere nel frattempo diventata un’altra persona, magari aver costruito una famiglia, avere un lavoro, essersi pienamente risocializzata.
La pena, dice la nostra Costituzione, deve tendere alla rieducazione del condannato. È rieducativo privare della libertà una persona per un fatto commesso 10 o 20 anni prima? Qualunque persona dotata di buon senso risponderebbe negativamente a questa banale domanda retorica.
Una classe politica responsabile non dovrebbe dunque mai ammettere sacrifici alla protezione delle libertà individuali che la Costituzione saggiamente ha imposto. Non si può incrinare il principio della presunzione d’innocenza di chi è imputato in un processo, e nemmeno la funzione rieducativa della pena per chi poi sia condannato. Travalicare questi limiti significa trasformare la funzione giudiziaria essenziale per il Paese, da mezzo di giustizia e di riparazione, in manifestazione di vendetta fine a se stessa.
Il provvedimento legislativo con cui è stato introdotto “l’ergastolo del giudizio”, non è dunque semplicemente del tutto inutile, ma risulta essere anche gravemente contrario ai principi costituzionali che guidano l’ordinamento democratico.