Trump sostiene Israele come attore di un nuovo Medio Oriente. Accordi in vista con i Paesi arabi, causa palestinese senza soluzione

Israele delegato a difendere gli interessi USA nel Medio Oriente, tanto da spingere Trump a chiedere la fine del processo per corruzione a Netanyahu. E una possibile tregua a Gaza, sostenuta dal premier israeliano come contropartita dell’aiuto USA nella distruzione dei siti nucleari iraniani.

Sono due sviluppi della guerra dei 12 giorni che aiutano a delineare qual è il Medio Oriente disegnato da Washington e Tel Aviv: un’area, spiega Bernard Selwan Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo “Cosmo”, nella quale si ipotizza ancora un cambio di regime a Teheran e una ripresa degli Accordi di Abramo con i Paesi arabi, pronti a intese con Israele stavolta anche senza chiedere un futuro per la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.



Chi ci perde, ancora una volta, sono i palestinesi, la cui causa è sempre più dimenticata, anche se solo da essa dipende la pacificazione della regione.

Trump ha chiesto la fine del processo di corruzione contro Netanyahu. Secondo alcuni analisti, per preparare l’opinione pubblica alla possibile concessione della grazia da parte delle autorità israeliane, magari aiutata da una legge ad hoc. Netanyahu, ormai, per gli USA è parte integrante dei nuovi equilibri nel Medio Oriente? 



Gli Stati Uniti vogliono tornare ad avere un ruolo più centrale in Medio Oriente, dopo che negli ultimi anni, soprattutto con l’amministrazione Biden, hanno adottato una politica un po’ più disimpegnata. C’è una differenza, però, rispetto agli anni in cui gli Stati Uniti sono intervenuti in maniera più diretta e incisiva in Afghanistan e in Iraq. Stavolta hanno deciso di delegare alcuni aspetti esecutivi e operativi a Israele. Ne consegue il fatto che è necessario supportare militarmente, politicamente e anche economicamente lo Stato di Israele, anche in funzione anti-iraniana: in questo caso, gli interessi americani e israeliani si incontrano.



Il premier israeliano ha dichiarato di essere disponibile a una tregua di due mesi a Gaza: gli USA hanno appoggiato l’operazione in Iran chiedendo in cambio la fine del conflitto nella Striscia?

È plausibile, soprattutto per le tempistiche. Gli Stati Uniti sono intervenuti in Iran per poche ore, ma hanno dato un segnale forte: hanno supportato le operazioni israeliane, mirando in maniera esclusiva agli impianti di arricchimento dell’uranio. Ma soprattutto le dichiarazioni di Trump hanno confermato il pieno appoggio a Netanyahu. Il cessate il fuoco, però, è stato annunciato dal presidente americano, come a dire che la politica mediorientale è bene che tornino a farla gli USA. In questo contesto, è credibile che gli americani abbiano chiesto a Netanyahu un’apertura su Gaza, anche se poi il premier israeliano, nel recente passato, di fronte a richieste di tregua per la Striscia, aveva fatto marcia indietro.

Le forze ultranazionaliste del governo Netanyahu hanno chiesto e ottenuto la sospensione dell’invio degli aiuti umanitari, per impedire ad Hamas di requisirne almeno una parte. Come reagirà l’estrema destra alla volontà del premier di arrivare a un accordo per Gaza? Per tenersi l’appoggio dei partiti religiosi, il capo del governo bloccherà anche stavolta le trattative o andrà fino in fondo?

Questo è il problema che sta impedendo, soprattutto negli ultimi mesi, una cessazione definitiva delle ostilità. Verrebbe da dire che, per Netanyahu, sarebbe più importante tenere il fronte interno coeso: non scontentare gli ultranazionalisti, piuttosto che non scontentare Trump. Se gli israeliani potessero dimostrare che gli aiuti umanitari vengono utilizzati da Hamas, ci metterebbero pochissimo tempo a persuadere gli statunitensi perché cambino idea su un’eventuale tregua. Non a caso sono emerse notizie secondo cui, sui mezzi che trasportavano gli aiuti, ci fossero persone a volto coperto, con una chiara allusione a elementi di Hamas.

Gaza è ormai l’unico fronte di guerra dichiaratamente aperto: quali sono le intenzioni di Israele per il dopoguerra? Occupare sostanzialmente il territorio, ma lasciarne almeno formalmente la gestione ai palestinesi, a una nuova ANP? O cos’altro?

Israele ha puntato allo smantellamento dell’apparato militare di Hamas e dei gruppi affini, anche se non possiamo dire che questo piano sia stato portato a termine. Ma con l’Iran in ginocchio e gli altri satelliti iraniani nella regione neutralizzati, è difficile pensare alla ristrutturazione militare di Hamas come prima del 7 Ottobre. Quindi, adesso, la priorità è impedire che la Striscia sia amministrata da Hamas o da un gruppo con lo stesso tipo di ideologia, magari dando spazio a una pseudo ANP. Quello che preoccupa è anche ciò che sta accadendo in Cisgiordania, dove quotidianamente gli israeliani mettono a segno operazioni importanti e guadagnano terreno. Tutto questo si colloca in una strategia che si colloca a sua volta in una visione più ampia del nuovo Medio Oriente.

Quale visione?

Quella che comprende un ritorno agli Accordi di Abramo e un Iran ridimensionato, dove si può addirittura cominciare a pensare a un cambio di regime soft, con la preparazione di un fronte politico che sia in grado di prendere in mano le redini del Paese senza creare vuoti di potere, rovesciando il regime degli Ayatollah.

Netanyahu sostiene che la vittoria sull’Iran ha aperto la possibilità di nuovi accordi di pace con i Paesi della zona. Ma, per firmare altri Accordi di Abramo, Israele non dovrà garantire un futuro alla Striscia di Gaza, alla Cisgiordania e ai palestinesi che ci abitano?

Purtroppo, dopo tutti questi cambiamenti in Medio Oriente, il ruolo del perdente spetta al popolo palestinese e alla sua causa, ammesso che ancora esista. I Paesi arabi sunniti hanno dimostrato che, a parole, supportano i palestinesi, ma di fatto, dal 7 Ottobre a oggi, non c’è stata un’azione concreta da parte di alcun Paese arabo sunnita a sostegno della popolazione o comunque della causa palestinese.

Questi Paesi hanno una strategia che non contempla più la questione palestinese come elemento di pressione nei confronti di Israele, come poteva essere negli anni 60 o 70. In questo scenario, gli Accordi di Abramo, ad oggi, potrebbero non contemplare come prerequisito un supporto ai palestinesi o alla soluzione dei due Stati, nonostante tutti sappiano che, fino a che non ci sarà una soluzione simile, in Medio Oriente permarrà una situazione di tensione.

(Paolo Rossetti)

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