Italia e UE scontano un ritardo profondissimo nell'informatica e IT. Rischiamo perfino la paralisi, senza che la UE abbia alternative (2)

Questo stato delle cose perdurò fino al 1992, quando con il D.Lgs. 518/1992 chi produceva software iniziò ad avere il giusto strumento legale per proteggere e tutelare il proprio lavoro, tutele poi estese con la legge 747/1994.

Un ritardo di almeno dieci anni, che frenò grandemente lo sviluppo di un mercato estremamente redditizio; pochi erano interessati a investire in questo settore, se poi il proprio lavoro poteva essere tranquillamente copiato e venduto da terzi senza alcun riconoscimento per il produttore. E com’è noto, in informatica dieci anni sono un lasso di tempo enorme, praticamente un’era geologica.

Sul fronte dell’alfabetizzazione, le cose non andavano meglio: lo studio dell’informatica nelle scuole superiori italiane, benché previsto fin dal 1965, solo nel 1985, con il Piano Nazionale Informatica (PNI), inizia ad assumere una forma davvero utile e ci vorranno ancora anni prima di apprezzarne i risultati, ad oggi però ancora insufficienti.

Un ritardo inaccettabile, se consideriamo che nel 1986 l’Italia ebbe il suo primo collegamento alla rete Internet, la cui diffusione esplose a partire dal 1990 fino a diventare un aspetto irrinunciabile della nostra vita. A questo tocca purtroppo aggiungere anche la miopia del mondo industriale dell’epoca. Emblematico è il parere su Internet di Alessandro Riello, non certo uno sprovveduto, riportato il 28 febbraio del 2000 dal Corriere della Sera: “troppe illusioni per Internet. Per lo sviluppo servono industrie”.

Peccato non si fosse accorto che anche quella del software e di Internet fosse in effetti un’industria, ma forse lui conosceva solo quelle fatte di fabbriche e catene di montaggio, non di uffici con Pc e cavi. Questa grave sottovalutazione e la patologica lenta reazione nel cogliere un’opportunità ha portato ad un disastroso ritardo nello sviluppo dell’informatica in Italia, sia come cultura sia come asset industriale.

Nel frattempo,i software americani, Microsoft Windows in testa, hanno conquistato il mondo, entrando in tutte le case, uffici (pubblici compresi) e fabbriche. Proprio nel settore industriale, guardiamo all’automotive e alla perdita di competitività che i grandi produttori europei di autoveicoli hanno subìto. Questo è dipeso in parte anche dalla mancata competenza sullo sviluppo di sistemi software, che ormai governano anche questo mondo e che, come europei, non siamo stati in grado di produrne di efficienti in casa, tagliati su misura per le aziende nostrane.



Passando all’esperienza personale, usiamo Android o iOS sui nostri telefoni, Windows o MacOS sui nostri computer, Google Chrome, Edge o Safari per navigare sul web, WhatsApp per scambiarci messaggi, Google per cercare informazioni, Instagram per condividere qualsiasi aspetto della nostra vita personale. Per il nostro lavoro, aggiungiamo a questo i servizi di pubblicità e marketing di Google e Meta, ChatGPT, le piattaforme collaborative da ufficio di Microsoft e Google, le suite di sviluppo Microsoft e Oracle e così via.



Tutti software e servizi prodotti principalmente negli Stati Uniti e da cui oggi siamo completamente dipendenti. E ovviamente usiamo Internet, la cui infrastruttura in Europa è costruita per la maggior parte con hardware made in USA, su cui gira software americano il cui funzionamento è noto solo ai produttori.

É storia recente l’accusa degli Stati Uniti nei confronti di Huawei di “spiare” il traffico Internet veicolato dagli apparati prodotti dall’azienda cinese, che per qualità e prezzo stavano minacciando il monopolio dei produttori statunitensi. La naturale domanda “se il rischio sussiste per i prodotti cinesi, perché quelli americani dovrebbero essere sicuri?” non è stata mai fatta. Ma la possibilità ovviamente esiste.



Inoltre, cosa accadrebbe in un’ipotetica guerra commerciale in cui gli Stati Uniti decidessero che per continuare ad utilizzare il loro software occorra pagare una sovrattassa del 125%? O che di punto in bianco non lo si possa utilizzare affatto e venissero immediatamente fermati gli aggiornamenti per quello già in uso?

Tutto il parco software installato diventerebbe rapidamente obsoleto e inutilizzabile, compresi i sistemi di sicurezza informatica (la maggior parte americani anche questi), che oggi proteggono tutti i nostri sistemi in rete e che se non funzionassero più o anche solo non ricevessero tempestivi aggiornamenti, ci lascerebbero senza difese nei confronti di qualsiasi attacco informatico verso i nostri dispositivi e il nostro Paese.

L’ipotesi è meno remota di quel che si pensi: durante il primo mandato del presidente americano Trump, all’azienda cinese Huawei (sempre lei) fu vietato di utilizzare i servizi di Google e in generale qualsiasi tecnologia americana per i propri smartphone, causandole un danno economico enorme, a cui Huawei sopravvisse grazie alle enormi risorse di cui disponeva, ma che avrebbe raso al suolo qualsiasi altra azienda.

Pensiamo ora a quanto sia diffuso il solo sistema operativo Windows. Praticamente ogni Pc in ogni casa, azienda e ufficio, anche pubblico, funziona grazie ad esso. Per i server, la situazione è migliore, almeno per le aziende dove il sistema operativo maggiormente utilizzato è Linux, ma per la pubblica amministrazione la situazione è diversa; si usa praticamente solo Windows anche per i server.

La situazione è praticamente la stessa in tutta Europa, il che rende facile immaginare come tutto il vecchio continente potrebbe essere rapidamente paralizzato più o meno con un clic. In Russia e in Cina il problema è stato in qualche modo affrontato con lo sviluppo rispettivamente di Astra e Kylin, entrambi basati su Linux, utilizzabili come sistemi operativi desktop al posto di Windows e impiegati principalmente in ambienti di Intelligence e sicurezza, ma nulla vieta di poterli utilizzare su scala più vasta.

E in Europa? Se ne sta discutendo. C’è l’idea di creare un sistema operativo destinato principalmente all’uso nella pubblica amministrazione, ma è solo un’idea. Al momento non è neppure un progetto dell’Unione Europea; maggiori informazioni possono essere reperite sul sito web https://eu-os.eu/

Si può rimediare a tutto ciò? Si, ma è tremendamente complesso e l’analisi, come dicevamo all’inizio, richiede ben più di un articolo. Come indicazione generale, sarebbe necessario ripensare all’intero programma di alfabetizzazione informatica, introduzione nel mondo del lavoro e di sostegno alle aziende del settore in un’ottica europea: la partita dell’informatica non può essere vinta a livello locale.

La prova è che oggi esistono già programmi finanziari di Stato a sostegno delle start-up informatiche ma nessuno di questi, nonostante in alcuni casi abbiano previsto l’impiego di notevoli capitali, ha davvero avuto successo, principalmente perché non hanno un vero “respiro europeo” ma sono affidati e gestiti dai singoli Paesi. Per avere una vera visione europea, occorre però che l’UE esista davvero, non solo come simbolo sulle banconote.

Oltre ad un piano di sostegno economico davvero europeo, un cloud comunitario orientato allo studio e alla sperimentazione, che garantisse risorse per tutti gli studenti e per chi voglia provare ad utilizzare le attuali tecnologie inclusa l’IA ad esempio, sarebbe un ottimo punto di partenza. E magari si potrebbe ridurre la frammentazione legislativa da cui siamo drammaticamente affetti; anche questo sarebbe un bell’aiuto.

Senza queste premesse, con gli opportuni cambiamenti potremmo iniziare a colmare almeno un po’ il divario, ma sarebbe impossibile anche solo sperare di vincere la sfida, che è quella di guadagnare una posizione leader nel panorama IT mondiale ed affrancarci almeno in parte dalla dipendenza del software estero.

(2 – fine)

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