L’allargamento a oltranza dell’Unione Europea, Ucraina compresa, Georgia, Moldavia e Balcani, è un dogma politico distruttivo
Alla recente Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, ospitata a Roma dal governo italiano, è stato ribadito, ancora una volta, l’impegno per l’ingresso di Kiev nell’Unione Europea. È la posizione di quasi tutti i capi di Stato e di Governo dell’Ue. È larghissimamente condivisa anche dai partiti italiani, di maggioranza e di opposizione. È altrettanto condiviso l’obiettivo di includere anche la Georgia e la Moldavia e, ancor prima, tutti gli Stati dei Balcani. Insomma, un’Unione che da 27 arriva nel giro di pochi anni a 36 membri.
Scelte così rilevanti, strategiche, gravide di conseguenze geopolitiche, economiche e sociali avvengono senza alcuna discussione. Sono considerati assiomi di segno progressivo. A sollevare dubbi si finisce meccanicamente nel girone dei putinisti, “sovranisti”, “populisti”.
Colpisce, in particolare, che i partiti di centrosinistra, tornati a preoccuparsi di lavoratrici e lavoratori, come pure i sindacati, si uniscano al coro o si disinteressino del passaggio storico. Eppure, dovrebbe essere chiaro, almeno a chi viene della storia del movimento operaio, il nesso stretto tra nazionale e internazionale, intensità del vincolo esterno e condizioni sociali.
Sull’ingresso nell’Ue dell’Ucraina e degli altri 8 Stati in lista d’attesa dovrebbe dire No chi punta a dare un minimo di soggettività politica ad una qualche configurazione di un sottogruppo dei 27. Il No dovrebbe essere ancora più convinto da parte di chi intende recuperare la difesa e la promozione degli interessi di lavoratrici e lavoratori.
Le ragioni geopolitiche del No dovrebbero essere evidenti. Ma vi torneremo. Qui, portiamo le ragioni economiche del No all’ulteriore allargamento. In sintesi: l’aggravamento del dumping sociale e fiscale determinato dall’arrivo di altri Stati a tassazione minimale dei profitti e dei redditi da capitale e a salari medi di 300-400 euro al mese.
Le conseguenze in termini di svalutazione del lavoro e sottrazione di entrate al welfare sarebbero ancor più severe di quelle vissute da lavoratori e piccole imprese dopo la prima estensione del 2004-2007. Chi celebra il mercato unico europeo e ne prospetta l’ampliamento e l’approfondimento ha qualche analisi empirica per documentare risultati opposti?
Il presidente Letta apre il suo Rapporto sul mercato unico europeo con un’affermazione temeraria: “Il mercato unico continua (…) a fungere da potente catalizzatore di crescita, prosperità e solidarietà”. Dove troviamo i dati aggregati per giustificare tale valutazione? Quelli noti indicano il contrario. La produttività nell’Unione negli ultimi 20 anni è stata deludente nei raffronti internazionali, come lo sono stati i traguardi raggiunti nell’innovazione tecnologica. La competitività dell’Ue, riflessa nell’attivo della bilancia di parte corrente, è stata prevalentemente (non esclusivamente) spinta dalla svalutazione del lavoro. L’impennata della disuguaglianza e lo spiaggiamento della classe media della “vecchia Europa” lo registra.
La scappatoia retorica di incolpare, fuori tempo massimo, la “globalizzazione” senza esecutori e senza mandanti è comoda e deresponsabilizzante. Quindi, va di moda.
Ma le cause primarie delle performance economiche e sociali dell’Ue sono nella competizione iniqua alimentata dal mercato unico, fattore moltiplicativo degli effetti sperequanti dei movimenti globali di capitali, merci, servizi e persone. Chi continua a celebrarlo si è chiesto perché fasce sempre più ampie di lavoratori dipendenti, autonomi, professionisti e piccoli imprenditori domandano protezione economica e identitaria e votano i partiti “sovranisti” e “populisti”?
Nei manuali del primo anno di economia, la concorrenza genera benessere quando si gioca almeno nelle stesse condizioni fiscali e retributive (il famoso level playing field). Ma esse sono inesistenti nel nostro mitico spazio comune, dove la competizione è tra sistemi di welfare (tassazione e trattamento del lavoro) diseguali, non tra capacità imprenditoriali e qualità delle amministrazioni e delle infrastrutture materiali e immateriali.
Fino a qualche anno fa, tali conseguenze, come ha disinvoltamente “confessato” Mario Draghi, erano funzionali all’impianto mercantilista scritto dalla Germania nel Trattato di Maastricht. Ma ora il mercantilismo è finito per manifesta insostenibilità economica e spirituale. Trump 1, Biden e Trump 2 reagiscono.
Di fronte a tali dati di realtà, le leadership europee dovrebbero fermare l’allargamento e invertire la rotta liberista e mercantilista dell’Ue per costruire le condizioni di nutrimento della domanda interna, unico motore di crescita sostenibile e di rianimazione di redditi e welfare. Sarebbe nell’interesse generale, non soltanto nell’interesse di lavoratrici e lavoratori e micro e piccole imprese.
Si persevera, invece. Si puntella il mercantilismo, colpito dall’offensiva protezionista del presidente Trump, attraverso l’impegno all’abbuffata di armi made in USA e all’acquisto di costosissimo gas dagli Stati Uniti.
Ovviamente, fermare ogni ulteriore allargamento dell’Unione non implica rinunciare alla solidarietà e alla cooperazione internazionale, in particolare nel sostegno all’Ucraina. Ma vi sono molteplici strumenti di intervento meno regressivi sul versante sociale: ad esempio, una sorta di Piano Marshall made in EU.
Qualità della democrazia e condizioni sociali sono interdipendenti. Senza svolta sociale, la regressione della democrazia è inarrestabile.
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