Sono stati fatti nuovi annunci in tema di futuro dell'auto da parte della Commissione europea, ma non risolutivi
Lo scorso 10 settembre, nel suo discorso annuale sullo stato dell’Unione europea, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è tornata a parlare della strategia per il settore automobilistico.
La strategia era già stata rivista a inizio anno, anche a seguito dell’avvio di un dialogo strategico con i principali attori del comparto. Come su altri fronti del Green Deal, von der Leyen ha avviato un delicato esercizio di equilibrismo politico: da un lato rivedere alcune politiche ambientali introdotte negli ultimi anni, dall’altro non dare l’impressione di volerle sconfessare del tutto, come invece ormai molti chiedono.
È un passaggio necessario, e va sostenuto. L’Europa, nel tentativo di guidare il mondo verso un futuro sostenibile, si è ritrovata sola in un angolo scomodo di non sostenibilità economica. Un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma.
A questo giro, il “colpo al cerchio” è stato ribadire che tutti gli obiettivi del Green Deal restano per ora confermati, incluso il divieto di vendita di auto non a emissioni zero tra dieci anni. Quello “alla botte” è l’annuncio che, nel corso del prossimo anno, sarà effettuata un’analisi per valutare la revisione di questa scadenza – già prevista dalla normativa iniziale – con particolare attenzione al principio di neutralità tecnologica. Il nodo cruciale sarà capire se, in nome di questa neutralità, potranno essere ammessi i motori tradizionali alimentati da biocarburanti da biomasse, o con livelli minimi di ibridizzazione elettrica. In tal caso, si tratterebbe di un equilibrio ragionevole.
A ciò si aggiunge una nuova promessa di investimenti per 1,8 miliardi di euro nella produzione europea di batterie: un rilancio che suona come un “double down” dopo il fallimento della prima grande esperienza europea, quella di Northvolt.
Inoltre, è stata annunciata un’iniziativa per produrre in Europa auto di piccole dimensioni e a basso costo, così che anche le fasce meno abbienti della popolazione possano permettersele.
Ben venga il riconoscimento che sostenibilità significa anche sostenibilità economica, e che includere vuol dire pensare anche ai meno fortunati. L’attuale piano europeo, se fosse applicato così com’è (ma non lo sarà), rischierebbe infatti di escludere le fasce più fragili della popolazione dal diritto alla mobilità. Un ritorno a un’epoca pre-fordista, in cui gli aristocratici viaggiavano in carrozza e tutti gli altri a piedi.
Ma pensare che la questione possa essere risolta raccontando agli europei meno abbienti che il futuro radioso della loro mobilità sarà fatto di Topolino o Trabant 2.0 è un’illusione – e per di più pericolosa. Rischia di essere percepita da alcuni, se non molti, come una conferma della deriva elitista e del distacco dalla realtà in cui sembrano incastrati troppi funzionari europei. Se le istituzioni europee perderanno la loro credibilità, sarà un problema per tutti.
Meno si dice sulla guida autonoma, ormai molto vicina, che ha il potenziale di ridurre drasticamente il numero di auto in circolazione grazie a un utilizzo più efficiente. Qui l’Europa dovrebbe davvero intervenire, rimuovendo i mille lacci che impediscono alle imprese di sperimentare e innovare.
L’obiettivo di rendere energeticamente indipendente l’Europa deve essere mantenuto, difeso e promosso con forza. La dipendenza dai combustibili fossili non è soltanto dannosa per l’ambiente, ma anche per la nostra economia.
L’Europa deve però imparare a conciliare ambizione e pragmatismo, uscire dai corridoi di Bruxelles e camminare per le periferie e le campagne, dove non ci sono colonnine di ricarica: senza questo, il rischio è di continuare a coltivare illusioni e perdere la propria credibilità, mentre altri Paesi corrono davvero verso il futuro.
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