I dazi imposti da Trump dovrebbero entrare in vigore oggi, 7 agosto. Finora sono stati redditizi, ma se gli Usa si limitano solo a questo, sbagliano (1)
I dazi imposti da Donald Trump dovrebbero entrare in vigore oggi, 7 agosto. 15% la tariffa base imposta all’Unione Europea. Ma la partita è ancora aperta, e sotto il tetto massimo del 15% c’è un accordo quadro che va riempito di dettagli. Proprio per questo, come era prevedibile, l’altro giorno è arrivata la minaccia di Trump di alzare le tariffe al 35% se l’Europa non farà quanto promesso (investimenti negli USA per 600 mld di dollari e acquisti di energia per 750 mld di dollari).
Si chiama metodo-Trump. Dove porti non è chiaro. Finora, il risultato è stata la capitolazione negoziale dell’Unione Europea. Ma dopo? “I dazi di Trump non sono parte di una visione coerente di politica economica. Il problema non sta nei dazi, ma nella visione mancante. Ed è per questo che non funzioneranno”, spiega al Sussidiario Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid.
Cominciamo dalla fine. Lo scenario non è confortante.
No, non lo è. Sarà solo una questione di tempo prima che l’amministrazione Trump chieda all’Unione Europea altri “dazi”, siano essi tariffs o siano transfers di altro tipo.
Insomma, lei è scettico sui dazi.
I dazi, in quanto strumenti di politica non soltanto commerciale ma economica in generale, possono avere un ruolo. Storicamente sono stati motivo di lotta politica, Alan Milward li ha paragonati a vere e proprie costituzioni. Questa è la linea che propone, per esempio, Oren Cass. Ma bisogna avere una visione di insieme, che in questo caso manca.
Cosa farà l’Europa?
Gli impegni presi da von der Leyen non saranno mantenuti. Sia perché sono irraggiungibili, sia perché la Commissione non ha l’autorità per renderli effettivi.
Trump, come gli suggerisce il suo consigliere economico Stephen Miran, usa l’incertezza per aumentare il potere negoziale. Finora è stata una strategia vincente.
Vincente, forse, lo sembra soltanto. Per ora. Ci sono delle buonissime ragioni per favorire una modifica della struttura dell’economia mondiale, in particolare del commercio internazionale, usando tutte le carte a disposizione per farlo.
Ce ne dica una, la principale.
Il modello fondato sul dollaro come moneta globale e gli Stati Uniti come compratore di ultima istanza si è esaurito. Ci vuole un altro modello, prima che quello nato alla fine degli anni 80 esploda. È nell’interesse di tutti, USA inclusi.
Ma qual è l’obiettivo della “disruption” di Trump? Solo quello di sfruttare economicamente la crisi del modello unipolare americano?
Il problema nell’amministrazione Trump non è soltanto la preferenza per una sorta di machiavellismo low cost, nel quale non si riesce a concepire che il potere va amministrato con molta parsimonia, specialmente quando si usa in forma “nuda”. Il guaio sta soprattutto nel fatto che non c’è traccia di una visione a medio termine. Invece di usare gli “asset” americani – dollaro, struttura finanziaria, superpotenza militare, tecnologia dell’informazione – per modulare il nuovo ordine economico mondiale a medio e lungo termine, Trump sta cercando di massimizzare i vantaggi a breve termine.
C’è del pensiero in questo metodo?
Molte delle “filosofie” degli attori individuali nell’amministrazione sono mere razionalizzazioni ex post, fatte a misura di interessi specifici. Si pensi al miscuglio di iper-liberismo “interno” e iper-protezionismo “esterno” dello stesso Miran.
Oltretutto non è chiaro se la leadership stessa di Trump non sia a volte una cortina fumogena.
Giusta osservazione. Dietro l’apparenza della leadership populista di Trump si nasconde un conflitto tra diversi attori, raggruppati in “famiglie”, di persone e di interessi, per di più fluide.
È un fatto inedito? Sembrerebbe di sì, forse per questo è così difficile da interpretare.
In realtà, lo stile del presidente, come arbitro supremo all’interno della sua amministrazione, ricorda l’equilibrismo dell’ultimo Domingo Perón, ma soltanto fra le diverse famiglie MAGA, che certamente non includono nessun tipo di montoneros. Non è un paragone lusinghiero. Con la differenza che Trump pretende di proiettare e di estendere quello stile alla politica internazionale.
Forse quanto accade tra USA e Russia ci aiuta a capire. Finora Trump ha mostrato di non avere una strategia per finire la guerra in Ucraina. E il presidente americano che parla con Putin è lo stesso presidente che impone i dazi.
Le contraddizioni sono costanti. Trump e Vance affermano che gli europei sbagliano a considerare la Russia di Putin come il grande nemico. Se fino ad ora c’è stata una costante nella politica estera della seconda amministrazione Trump, è quella di fare rientrare la Russia nel gioco diplomatico internazionale.
E non è un bene?
Assolutamente sì. Allo stesso tempo, però, gli americani insistono sull’aumento della spesa militare europea. Una posizione che certamente è negli interessi del complesso burocratico-industriale-militare americano – e di quello in fieri europeo, con tanti intrecci che lo legano a quello statunitense –, ma che risulta assurda, se è buona la prima.
Lei quali conclusioni ne trae?
La situazione ideale per l’amministrazione Trump sarebbe quella di un conflitto permanente fra Europa e Russia, con gli USA a mediare costantemente, vendendo armi ed energia agli europei e usando i russi contro la Cina.
Sulla base di queste considerazioni, come potremmo definire il fenomeno-Trump?
Diciamo che la base MAGA è fatta di nostalgici dei “bei tempi” di quella che possiamo chiamare la configurazione sociale del “capitalismo fordista”. Ma non perché quello fosse un “capitalismo ben temperato”, come pensavano i democristiani e socialdemocratici europei.
E allora per quale motivo?
Perché gli americani vincevano. Il recentissimo film Sovereign mostra questa realtà sociale in maniera molto vivida. Incluso il “sense of entitlement” (senso del diritto, nda). È per questo che le policies di Trump, oltre gli slogan, non sono mai state “antiglobaliste” in senso vero, per esempio con proposte sulla circolazione dei capitali. Per Trump, come per il popolo MAGA, le libertà economiche sono sacrosante a patto che siano loro a vincere. In caso contrario, ritengono che qualcuno stia giocando sporco. Quindi bene riscrivere le regole, ma solo se a vincere sono loro. (1 – continua)
(Federico Ferraù)
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