Il taglio dei tassi operato mercoledì dalla Fed non appare giustificato dai fondamentali economici: sembra più una mossa politica
L’Amministrazione Trump potrà portare a termine la conquista della Fed solo a luglio 2026 con la nomina del nuovo Presidente. Tuttavia, gli effetti della politica sulle decisioni della banca centrale sono già visibili.
Il taglio di 25 punti base di mercoledì è arrivato dopo una revisione al rialzo delle stime del Pil, sia per il 2025 che per i prossimi due anni, dell’inflazione e dopo una revisione al ribasso di quelle sul tasso di disoccupazione. Il Pil americano cresce, la disoccupazione rimane ai minimi e il tasso di inflazione è ai massimi degli ultimi dodici mesi ed è in accelerazione. In questo scenario, con i mercati che aggiornano nuovi massimi, la Fed avrebbe dovuto aspettare a tagliare.
La spiegazione ufficiale data da Powell, “i rischi al ribasso per il mercato del lavoro”, apparsa subito debole, è stata contraddetta nella stessa conferenza quando il Presidente ha attribuito il rallentamento del mercato del lavoro a minori flussi migratori. Molti osservatori hanno quindi concluso che già mercoledì, quasi un anno prima della successione di Powell, la Fed abbia preso una decisione “politica”.
Le ipotesi infatti sono solo due; o il mercato del lavoro va peggio di quanto non emerga dal dato sulla disoccupazione oppure la Fed ha già virato verso un approccio più espansivo. Questa seconda opzione è coerente con la posizione di Stephen Miran nominato da Trump nel board della Fed pochi giorni fa.
Si conclude quindi che l’azione della Fed è politica; con questo aggettivo si intende la fine dell’indipendenza della banca centrale e la sua subordinazione al programma di Trump. Il primo e più evidente effetto di questa virata si è visto nelle ultime settimane sul cambio euro/dollaro con il biglietto verde sceso del 10% in sei mesi e arrivato ai minimi degli ultimi cinque anni.
La svalutazione del dollaro è funzionale al progetto di rimpatrio dell’industria esattamente come la compressione dei tassi di interesse che serve per sostenere gli investimenti necessari. Un Paese che emette la valuta di riserva globale e che è il principale produttore di idrocarburi si può permettere, entro certi limiti, più svalutazione degli altri.
La nuova Fed diventa funzionale al programma economico della nuova Amministrazione in un processo che la porta ad assomigliare alle banche centrali delle “democrature” o dei Paesi in via di sviluppo. Anche la reazione dei mercati azionari è del tutto coerente a quello che succede di solito in questi casi; i rialzi diventano il contraltare dell’indebolimento della valuta e del rialzo dell’inflazione.
La reazione dei mercati obbligazionari potrebbe essere invece meno “lineare”. Se i tassi vengono compressi e l’inflazione sale gli investitori si devono porre il problema di come tutelare il valore reale dei loro risparmi in un mondo in cui le obbligazioni statali e societarie non rispondono più come prima a questo obiettivo. È difficile ipotizzare che Scott Bessent, segretario del Tesoro, non sia consapevole di queste dinamiche e dei loro rischi; è questa forse la ragione della corsa forsennata di questi mesi per conquistare la Fed il prima possibile.
Il punto di caduta di una Fed che “fa politica” sono però i mercati perché gli investitori, grandi e piccoli, potrebbero decidere che questo nuovo mondo non fa per loro e per i loro risparmi e scatenare episodi di “volatilità” difficile da controllare. Saranno mesi interessanti.
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