Fa discutere il caso dei grandi banchieri Usa che sostengono il capo della Federal Reserve contro Trump
Jerome Powell – in bilico al vertice della Fed – è entrato ormai del tutto nei panni del protagonista di una pièce classica: quella del tecnocrate – buono per definizione – vittima predestinata di un politico narrativamente ultra-cattivo come il Presidente Donald Trump. E i modi e i toni della Casa Bianca, certamente, non aiutano a osservare quanto sta accadendo attorno alla banca centrale del dollaro, sotto la luce appiattita dai flash mediatici.
Negli ultimi giorni è avvenuto ad esempio che i quattro maggiori Ceo di Wall Street (di JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America e Citigroup) abbiano pubblicato un raro appello congiunto a favore di Powell. Salutati – il boss-veterano di JPMorgan Jamie Dimon e i suoi colleghi – dagli applausi di un vasto fronte politico-mediatico di “resistenza” anti-trumpiana.
Da un’angolatura meno partizan, la solidarietà dei grandi banchieri al “loro” banchiere centrale – il primo fornitore della loro materia prima monetaria – potrebbe spiccare invece come sintomo di serio conflitto d’interesse in una democrazia di mercato. E tutto potrebbe essere incluso in un bilancio obiettivo sull’operato di Powell, in carica ormai dal 2018. A lui possono certamente essere riconosciute tutte le attenuanti di una fase storica senza precedenti (segnata dal Covid e poi dalla crisi geopolitica), ma anche le aggravanti in caso di “errori” che in uno scenario simile tendono inevitabilmente a pesare il doppio o più.
I banchieri che spalleggiano Powell restio a tagliare rapidamente i tassi – come invece sollecita Trump – sono gli stessi che grazie ai tassi alti hanno tutti archiviato nel 2024 il terzo bilancio record consecutivo. Hanno tutti approfittato in misura massima dell’escalation restrittiva della politica monetaria decisa – in via formalmente autonoma – dalla Fed per domare l’inflazione esplosa negli Usa per tre ragioni.
La prima (oggettivamente esogena) è stata l’impatto dal terremoto-Covid sulla produzione e sul commercio internazionale. Ma le altre due spinte ai prezzi sono giunte da scelte politiche discrezionali del Presidente dem Joe Biden: aver continuato in chiave di politica sociale i sussidi d’emergenza già decisi da Trump nei primi sei mesi di pandemia; e poi aver lasciato deflagrare – per tre anni – prima il conflitto russo ucraino, poi quello in Medio Oriente, in un clima di confrontation crescente con la Cina.
Chi accusa oggi Trump di aver fatto risalire l’inflazione al 2,7% dopo sei mesi di stress-dazi (più minacciati che praticati) dimentica il dazio interno imposto da Biden con una conduzione geopolitica discutibile nelle premesse e nelle realizzazioni.
C’è chi trascura volentieri che nel 2022 l’indice dei prezzi ruggiva al ritmo del 10%: anche se l’ex Presidente della Fed Janet Yellen – trasmigrata a segretario al Tesoro nell’amministrazione Biden – sostenne poi di “non aver visto arrivare l’inflazione”. Eppure fin dal boom del prezzo del gas, a fine 2021 non era difficile prevedere che anche la benzina – anche in un Paese praticamente autosufficiente sul piano energetico – sarebbe arrivata a costare 5 dollari al gallone (oggi è tornata attorno a 3).
Non era inimmaginabile che – lasciando scoppiare la guerra in Ucraina – nelle grandi metropoli milioni di famiglie non sarebbero più riuscite a pagare le bollette. Mentre il caro-tassi deciso dalla Fed – assecondando passivamente le scelte politiche della Casa Bianca dem – avrebbe colpito sia i piccoli proprietari a debito, come ai tempi dei subprime, sia i costruttori delle megatorri sopra Central Park.
Per le banche e per i loro azionisti – così come per i giganti dell’energia – sono stati però anni indimenticabili. E i giganti bancari in particolare hanno beneficiato della prosecuzione “con altri mezzi” di un decennio politico-finanziario altrettanto dorato: quello iniziato con il salvataggio pubblico di big tutte più o meno in dissesto nel 2008.
Le stesse banche sono stati poi in forma con anni di tassi tenuti artificialmente zero dalla Fed. Zero senza ombra di dubbio per i risparmiatori, mentre JpMorganChase e le sue sorelle mettevano a bilancio per intero i complementi di quello zero. Decisione (tecnica o politica?) imposta di Tim Geithner: il capo della Fed di New York che aveva (mal) vigilato su Lehman Brothers, subito chiamato al Tesoro da Barack Obama e dal suo vice Biden. Le banche erano un “patrimonio nazionale” che andava tutelato a vario onere pubblico: deciso dall’Amministrazione (dem) e dalla Fed (dem), senza troppe muraglie cinesi in mezzo.
Allora il “Quantitative easing” monetario è stato un mantra-dogma per anni e anni: predicato e praticato da Yellen alla Fed (nonché da Mario Draghi nell’Eurozona, nonostante la tenace opposizione tedesca). Oggi è Trump a chiedere un po’ di “easing” – a favore di imprese e famiglie, non delle banche – ma si attira le accuse di essere un pericoloso autocrate, manipolatore politico della – sempre pretesa – indipendenza tecnocratica della banca centrale.
P.S.: Fra le vittime collaterali della “gestione Biden” della Fed vi sono state alcune banche fallite a causa di tassi improvvisamente “troppo alti” per i portafogli titoli zeppi di bond governativi. Il crack più emblematico è stato quello della Silicon Valley Bank, sotto la vigilanza della Fed di San Francisco: quella che aveva lanciato Yellen come “regina del dollaro”.
E sempre nella California iper-dem aveva sede la First Republic Bank: salvata dalla JPMorganChase, di peso e in fretta, per non disturbare troppo l’Amministrazione Biden e la stessa Fed. Ma Dimon era fra i moltissimi americani – forse tutti – che nel maggio 2023 mai avrebbero immaginato che nel novembre 2024 sarebbe tornato alla Casa Bianca un immobiliarista di New York: perennemente allo sportello bancario a chiedere crediti e a battagliare sui tassi. È andata diversamente e ora è Trump a batter cassa allo sportello.
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