Sul piano per Gaza ci sono state frizioni fra Egitto, Arabia ed Emirati. Qatar protagonista: raccoglierà i frutti della sua politica
Ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non è piaciuto il modo in cui l’Egitto ha condotto il negoziato per il cessate il fuoco a Gaza e neanche l’atteggiamento troppo morbido tenuto con Hamas. Non per niente a Sharm el Sheikh Mohamed Bin Salman non c’era, e neanche il presidente emiratino: hanno inviato entrambi dei ministri.
Le frizioni nel campo arabo non dovrebbero però penalizzare la ricostruzione della Striscia, anche se dopo il negoziato, nel quale ha messo in campo tutte le sue risorse in termini di influenze e promesse, il Qatar ha assunto un ruolo da protagonista nell’area legandosi ancora di più agli USA.
Il punto vero, spiega Bernard Selwan Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo Cosmo, è però il disarmo di Hamas, insieme a quello di Hezbollah e più avanti quello degli Houthi, altrimenti il Medio Oriente non potrà avere un futuro di pace. Intanto l’accordo tiene, ma non mancano le accuse reciproche sul suo mancato rispetto. Anzi, Trump ha già detto che se Hamas non rispetterà l’intesa Israele potrà attaccare.
Alcuni media arabi sostengono che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non hanno partecipato all’incontro di Sharm el Sheikh con delegazioni ai massimi livelli per dissentire dalla conduzione delle trattative per Gaza da parte dell’Egitto. Avrebbero voluto un atteggiamento più duro con Hamas. Il fronte arabo si è spaccato?
Dell’accordo su Gaza si parlerà nei libri di scuola, ma in questa occasione è riemersa una competizione a livello regionale che non è nuova. Ci sono Paesi arabi che potranno vantare di essere stati protagonisti nella trattativa: la firma dell’intesa è avvenuta in Egitto e il Qatar, dopo essere stato per anni il principale sponsor di Hamas, ha giocato un ruolo importante. In questo contesto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non sono contenti di vedere che brillano particolarmente i meriti di egiziani e qatarioti. Questa interpretazione, insomma, trova dei riscontri anche nella storia del Medio Oriente.
Da dove nascono i contrasti fra i Paesi sunniti?
Il Qatar è l’unico Paese che ha avuto sempre il piede in due staffe, che ha dialogato con Hamas, ma anche con i talebani afghani. La competizione che si gioca all’interno del mondo sunnita riguarda anche l’accreditamento di questi Paesi presso l’amministrazione Trump.
Queste divisioni possono influire sull’applicazione del piano Trump per Gaza? Sauditi ed emiratini dovrebbero sostenere la ricostruzione: chiederanno di avere più voce in capitolo?
Credo che la pianificazione della ricostruzione sia in fase molto più avanzata di quello che emerge dai media: sono state fatte diverse riunioni e buona parte delle decisioni sono già state prese. L’Arabia Saudita ha lavorato molto in termini di aiuti e di supporto soprattutto alla popolazione gazawi, quindi credo che vorrà giocare un ruolo di primo piano nel processo di ricostruzione. Non penso che queste frizioni storiche possano condizionare la situazione.
Trump ha firmato un ordine per garantire la sicurezza del Qatar come se fosse uno Stato americano e Doha dovrebbe costruire una base nell’Idaho in cui addestrare i suoi piloti militari. Il Qatar è diventato il primo partner degli USA nell’area?
Il Qatar è stato protagonista dell’accordo per Gaza, ma ha anche investito per mettersi nella condizione di svolgere un ruolo da mediatore. Per anni è stato isolato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti proprio per il suo comportamento considerato ambiguo, che lo ha portato a dialogare con Hamas.
Per questo cercherà di capitalizzare i suoi sforzi, per ottenere più degli altri. L’investimento è stato anche di natura economica: Hamas prendeva finanziamenti dall’Iran, ma anche dal Qatar, in particolare l’ala politica del movimento. Lo dimostra il fatto che durante l’attacco israeliano a Doha è stata presa di mira la sede di Hamas in città.
Ma c’è un legame più stretto tra Qatar e USA rispetto agli altri Paesi della regione?
Con gli Stati Uniti il Qatar può vantare un credito maggiore rispetto ad altri Paesi. L’amministrazione Trump si è basata molto sull’influenza di Doha per riuscire a raggiungere questo accordo: è chiaro che il Qatar vorrà un ritorno.
Secondo alcune ricostruzioni, memori anche di come i qatarioti hanno agito in Europa cercando di influenzare parlamentari UE, il Qatar in questo frangente ha ottenuto risultati pagando un po’ tutti. Può aver fatto anche questo?
Per quanto sia piccolo, questo Paese ha una potenza economica e un’influenza che gli derivano dal fatto di essere riuscito a trovare un equilibrio con diversi attori dell’area mediorientale. Probabilmente ha adottato una politica che ha permesso di facilitare un accordo, magari promettendo qualcosa in termini di influenza o dal punto di vista della ricostruzione.
L’ex primo ministro israeliano Olmert in un’intervista su Il Fatto quotidiano ha detto che il piano di Trump è debole e che Netanyahu non vuole una pace lunga e duratura. Come possiamo giudicare questa lettura?
I ministri dell’estrema destra israeliana non hanno ratificato l’accordo sul cessate il fuoco. Paradossalmente questa parte politica ha bisogno della presenza di Hamas (di cui chiede annientamento e disarmo) per giustificare la sua presenza, così come ad Hamas fa gioco un governo israeliano che non sia moderato.
Per questo siamo di fronte a un accordo che ogni giorno deve essere rafforzato: non per niente i palestinesi accusano gli israeliani di aver violato l’accordo, perché l’IDF ha colpito comunque alcuni obiettivi, mentre Hamas non riesce a tener fede ai termini riguardanti la restituzione di tutte e 28 le salme degli ostaggi promesse. L’intesa è fragile e può saltare a prescindere dalla volontà di Netanyahu.
Trump ha detto che l’IDF potrà attaccare se Hamas non rispetterà i patti. C’è il rischio che gli israeliani intervengano ancora militarmente?
Gli israeliani devono stare attenti a non fare affronti a Trump. Ciò che può tenere in piedi l’intesa non è tanto la volontà dei palestinesi e degli israeliani, ma quella degli USA. Il presidente statunitense, d’altra parte, alla Knesset ha fatto capire che i successi militari di Israele sono dipesi anche dai mezzi messi a disposizione da Washington.
Il presidente americano ha detto che se Hamas non vuole disarmare si procederà a farlo anche con la violenza. Resta questo il punto cruciale dell’accordo?
Il disarmo di Hamas non è una questione nazionale, che riguarda Israele o la Striscia di Gaza. Fa parte della nuova configurazione del Medio Oriente, che include il disarmo di tutte le milizie che hanno cercato di imporsi come uno Stato dentro lo Stato. È una questione legata agli Houthi nello Yemen, a Hezbollah in Libano, il cui disarmo ancora non è avvenuto. Il rischio che si corre è quello di una libanizzazione di Gaza.
Cosa significa?
Intendo una situazione simile a quella in cui Hezbollah resiste al disarmo perché in Libano non c’è ancora uno Stato abbastanza forte e perché non ci sono garanzie per tutti i componenti del gruppo armato su quello che potrà essere il loro ruolo nella vita civile. Nel Sud del Libano, poi, dobbiamo constatare quantomeno azioni al limite da parte delle forze israeliane, che non stanno permettendo il dislocamento al 100% dell’esercito libanese. Se questo disarmo non dovesse avvenire, ci ritroveremmo ancora in un Medio Oriente instabile, con il rischio di un nuovo allargamento del conflitto regionale.
Il disarmo di Hamas potrebbe essere parziale?
Il disarmo totale immediato lo escluderei, significherebbe la morte di Hamas, che ha acquisito potere grazie alle armi. Deve essere un processo graduale: questi movimenti hanno impiegato anni per costruire il proprio arsenale, non si può pensare che tutto possa avvenire dall’oggi al domani. Alla fine, tuttavia, il disarmo dovrà essere sostanziale, altrimenti ci si dovrà abituare sempre a gestire un conflitto regionale.
(Paolo Rossetti)
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