Può essere utile una riflessione sulle prospettive di crescita dell'economia italiana dopo la stima sul Pil diffusa dall'Istat

Quali sono le prospettive per la crescita economica dell’Italia dopo il dato con segno negativo del secondo semestre? Dobbiamo preoccuparci, considerando che a breve potranno anche manifestarsi gli effetti dei dazi di Trump?

Ai fini di una riflessione ragionata conviene partire da ciò che sappiamo, e dunque dai numeri pubblicati, confrontando poi in una seconda puntata l’Italia con l’Europa e le sue maggiori economie.



Al momento non ne sappiamo con precisione le cause, dato che l’Istat non distingue nella prima stima trimestrale del Pil tra componenti della domanda, tuttavia nel secondo trimestre del 2025 l’economia italiana avrebbe registrato una flessione dello 0,1% rispetto al primo trimestre dell’anno, riducendo in conseguenza il tasso crescita sullo stesso trimestre dell’anno precedente, il tendenziale, allo 0,4% rispetto allo 0,7% del trimestre precedente.



Pur in assenza di dati disaggregati l’Istat, nel suo consueto comunicato stampa, attribuisce la riduzione ai settori primario e industriale a fronte di una stazionarietà del settore dei servizi, che non avrebbe pertanto compensato, come avvenuto in precedenti occasioni, il calo dei primi due.

Data la debole rilevanza dell’agricoltura e dei suoi settori ancillari (silvicoltura e pesca) rispetto all’industria appare tuttavia evidente come sia la crisi del manifatturiero a riverberarsi sull’intero sistema economico. Infatti, la nostra produzione industriale dopo aver pienamente recuperato nella prima metà del 2022 i livelli pre-Covid è risultata in continua contrazione.



Ansa

Questo produce effetti anche sulle nostre esportazioni e sul saldo commerciale, dato che una quota rilevante della nostra manifattura è prodotta per il resto del mondo. Invece nel campo dei servizi la produzione è prevalentemente destinata alla domanda interna, che non può evidentemente crescere in maniera significativa in presenza di redditi degli italiani che risultano sostanzialmente stazionari.

In maniera coerente con questa analisi l’Istat ci ha anche detto che nel secondo trimestre dell’anno la componente nazionale della domanda, misurata al lordo delle scorte, è risultata in crescita, neutralizzata tuttavia da una diminuzione con effetti più consistenti della componente estera netta (export meno import).

È l’esatto rovescio di quello che abbiamo visto in passato in differenti occasioni, quando a garantire un po’ di crescita per il nostro Paese era proprio il resto del mondo mentre la domanda interna languiva.

Il dato debole del secondo trimestre non è tuttavia in grado di scompaginare le previsioni macro dell’Italia per l’anno in corso che sono alla base delle previsioni di finanza pubblica. Infatti, la stima della crescita acquisita per il 2025, quella che si verificherebbe con un Pil completamente immobile nella seconda metà dell’anno, è rimasta ferma dopo i dati del secondo trimestre allo stesso 0,5% alla quale era stata calcolata dall’Istat dopo il primo. Si tratta di un valore pochissimo distante dallo 0,6% stimato per l’anno in corso dal Governo nel Documento di finanza pubblica della scorsa primavera. Dunque, nessun problema in vista per la finanza pubblica che anzi sta andando meglio delle previsioni, come vedremo meglio in una prossima occasione.

Ma i dazi di Trump potranno peggiorare ulteriormente questo scenario già di suo non idilliaco? Sicuramente sì, ma probabilmente non troppo. Ricordiamo in primo luogo che i dazi sulle importazioni non sono altro che tasse poste legalmente a carico degli importatori nazionali, dunque in questo caso americani. Altra cosa è come si ripartirà il loro onere tra tre differenti categorie di soggetti economici: gli esportatori esteri, gli importatori nazionali e i consumatori Usa. E questa ripartizione dipende dall’elasticità della domanda e dell’offerta per i singoli beni, che ovviamente non conosciamo. Tuttavia qualche ipotesi può essere formulata:

1) L’export italiano negli Usa ricade principalmente in due grandi macrocategorie: i) beni industriali e intermedi come macchinari, attrezzature e prodotti chimici e farmaceutici; ii) beni finali di consumo appartenenti al c.d. Made in Italy.

2) I beni del primo gruppo per non essere più acquistati dall’Italia e da Paesi egualmente soggetti a dazi dovrebbero essere prodotti negli Usa. Ma questo nell’immediato non è possibile perché prima di produrli bisogna attivare la relativa capacità produttiva, in parole più semplici bisogna prima produrre le fabbriche che siano in grado di produrli.

3) I beni del secondo gruppo sono di fascia alta nei consumi degli americani, per cui è possibile ipotizzare una debole elasticità al prezzo. In tal caso l’aumento di prezzo sarà assorbito dai consumatori. Non dimentichiamo, inoltre, che il dazio si applica al prezzo all’import e non a quello finale, per cui se esso pesa in origine per il 15% ma il bene viene rivenduto ai consumatori a un prezzo doppio rispetto all’import, l’incidenza del dazio si riduce al 7,5%, e al 5% nel caso in cui sia rivenduto a un prezzo finale triplo. Sono percentuali facilmente assorbibili da un consumatore di fascia alta.

La prime stime sull’incidenza dei dazi confermano queste attese. Matteo Villa, responsabile del DataLab dell’ISPI, l’Istituto per lo Studio della Politica Internazionale, ha calcolato che nel mese di giugno il 90% dell’onere dei dazi sia stato pagato dai soggetti economici Usa, in particolare il 31% dai consumatori americani e il 59% dagli importatori, i quali hanno accettato di ridurre i loro margini. Solo il 10% è rimasto a carico degli esportatori mondiali:

L’analisi sin qui svolta ha mostrato come il bicchiere della crescita economica dell’Italia non sia vuoto, anche se il suo riempimento non arriva alla classica metà… Per analizzare la metà e oltre vuota bisogna invece confrontare i dati dell’Italia con l’Europa e con alcune della sue maggiori economie, cosa che faremo nella prossima puntata.

(1- continua)

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