Anche recentemente, attraverso notiziari e social media, siamo informati sulle attività di vulcani come l’Etna o il Kilauhea, peraltro ben studiati da molto tempo. E ciclicamente ritorna l’allerta sulle possibili eruzioni del Vesuvio. Come tutti i fenomeni che interessano le modificazioni della crosta terrestre, anche il vulcanismo è un fenomeno complesso, che impegna la ricerca dei geologi. Oggi le aree vulcaniche attive sono continuamente monitorate, fornendo grandi quantità di dati, ma come si può prevedere dove possono avvenire eruzioni disastrose soprattutto per prevenire i rischi ad esse legate. Esistono dei modelli sul comportamento dei vulcani e in che misura sono utilizzabili come riferimento per interpretare i dati raccolti? Abbiamo posto le domande a un esperto, Gianluca Groppelli, geologo e vulcanologo, appassionato studioso di geodinamica. Un confronto e un approfondimento di grande interesse, utile anche nell’attività didattica.Oggi fanno notizia situazioni conosciute da molto tempo, per esempio l’allerta sulle possibili eruzioni del Vesuvio, le manifestazioni di vulcani come il Kilauhea alle Hawaii. È cambiato qualcosa nel modo con cui il vulcanismo si manifesta sulla superficie terrestre o è solo una questione di risonanza mediatica?
La risposta è complessa. Noi sappiamo delle eruzioni perché ne parlano i giornali, la radio, anche i social. In realtà non si può dire che in questo periodo sulla Terra c’è un vulcanismo più forte rispetto al passato. Se proprio si volesse individuare un trend generale, questo sarebbe in leggera discesa. Nel passato sono avvenute grandi eruzioni esplosive, per esempio quella che ha colpito la zona campana circa 39.000 anni fa, chiamata Ignimbrite Campana: un’eruzione di un volume talmente incredibile i cui prodotti sono arrivati fino in Puglia. In tempi recenti non abbiamo mai osservato eruzioni così violente anche perché la nostra memoria storica è comunque molto limitata. Per quanto riguarda la recente eruzione del Kilauhea, che i media hanno riportato come «eccezionale», occorre premettere che le Hawaii sono isole vulcaniche e ogni centimetro di terra è prodotto dall’attività vulcanica, quindi non possiamo dire che c’è una zona delle Hawaii che non sia mai stata interessata da eruzioni vulcaniche. I geologi dell’USGS (Servizio Geologico degli Stati Uniti d’America) che si occupano di monitorare continuamente le isole, a settembre mi hanno riferito che la popolazione locale non era stupita dell’eruzione. Gli abitanti erano perfettamente consapevoli del pericolo e del rischio, tant’è vero che non c’è stato problema a far evacuare circa 200 case di cui 50 perse per sempre; è stata persa anche una centrale geotermica, però questi eventi sono stati accettati per l’abitudine a convivere con il vulcano. Gli abitanti sono consapevoli di vivere su un vulcano attivo.
Agosto 2019: la lava del Kilauhea si getta nel mare creando grandi nubi di vapore (foto di Maximilian Speciani)
Quali modelli si prendono a riferimento per studiare i vulcani? Quali sono vantaggi e limiti di questi modelli, cioè che cosa si riesce a spiegare e che cosa no?
Per studiare i vulcani usiamo due metodi di riferimento. Un primo riferimento è il vulcano stesso: cercare di capire tramite la storia geologica dell’area vulcanica quale sia stato il comportamento del vulcano: come si è comportato nel passato, che tipo di eruzioni ha avuto, con che frequenza, magnitudo e intensità. Questo è un lavoro fondamentale del geologo che si approccia allo studio del vulcano. Non si può a priori dire quali siano le problematiche o i pericoli di un vulcano senza prima conoscerne il passato. Conoscendo l’evoluzione passata possiamo cercare di prevedere il futuro: l’attività passata viene usata per capire il presente e per interpretare il futuro.
Il secondo metodo di riferimento riguarda l’applicazione di modelli fisici per capire dove si possono distribuire i prodotti di un’eruzione. Prima bisogna capire come si comporta un vulcano, poi, in base all’attività vulcanica passata, applico i modelli per le singole eruzioni. Ovviamente, noi cerchiamo di inquadrare i vulcani in modelli, ma non possiamo imporre un sovraschema alla natura, perché ci sono variazioni notevoli: ogni vulcano è un caso particolare, è un caso a sé. Per esempio, il Vesuvio tende a fare eruzioni esplosive, perciò applico modelli che simulino le eruzioni esplosive; l’Etna tende a produrre eruzioni più effusive e quindi applicherò modelli delle eruzioni effusive, sempre tenendo conto che anche l’Etna può avere eruzioni esplosive anche di intensità elevata.
Carta geologica dell’Etna (S. Branca, M. Coltelli, G. Groppelli & F. Lentini, “Geological map of Etna volcano”, 1:50,000 scale, in «Italian Journal of Geosciences», vol. 130, n. 3, pp. 265-291, (2011). doi: 10.3301/IJG.2011.15.)
La storia del vulcano si studia tramite la stratigrafia, realizzando carte geologiche, ricostruendo la storia geologica del vulcano o facendo altre indagini geologiche; per esempio, esaminando la relazione con la dinamica della Terra, la tettonica, la vulcano-tettonica posso capire quali siano le possibili aree interessate da future eruzioni. Facendo riferimento al comportamento passato, valutando l’intensità e la frequenza delle eruzioni, applico modelli specifici spesso fisici per capire dove, in caso di una nuova eruzione con quella stessa intensità, questi prodotti possano arrivare e che tipo di danni possano provocare. Non abbiamo un vulcano «standard», ogni vulcano è un caso unico sulla Terra: ha una sua storia, un proprio contesto geodinamico. Non posso applicare il modello dell’Etna direttamente a un altro vulcano senza considerarne le sue peculiarità, perché non sarebbe un modello sufficientemente significativo. Chiaramente una previsione non può contemplare tutti gli eventi, tant’è vero che la protezione civile parla di «massimo evento atteso», non l’evento più catastrofico che ci si possa aspettare da quel vulcano, ma l’evento più catastrofico che ci possiamo attendere in tempi ragionevoli, cioè nell’arco di 50-100 anni. Non si va oltre con le previsioni.
Quando i media descrivono un’eruzione vulcanica si interessano solo della localizzazione di eventuali nuove bocche, dei rischi per le popolazioni o per il traffico aereo. Dal punto di vista scientifico quali parametri sono importanti per capire l’andamento dell’attività di un vulcano? E come si misura la “forza” di un’eruzione?
Per misurare l’intensità di un’eruzione ci sono diversi parametri: il più semplice è il cosiddetto VEI, cioè il Volcanic Explosivity Index, che misura qual è il volume totale di materiale emesso durante un’eruzione. È espresso in scala logaritmica in base 10 e si va da 0 a 8. Per esempio, per l’Ignimbrite Campana di 39.000 anni fa, cui ho accennato prima, eruzione estremamente esplosiva e violenta, si calcola un VEI di valore 7. Si veda la tabella di classificazione VEI (fonte Wikipedia).
La magnitudo di un’eruzione effusiva si calcola misurando la lunghezza delle colate, cioè qual è la distanza percorsa dalla lava, che è l’elemento essenziale anche per valutare la pericolosità e il rischio. Se so che l’Etna tende a generare colate di 6-7 chilometri, questo significa che tutto ciò che sta a una distanza superiore dal punto di eruzione è in sicurezza, tutto ciò che è più vicino deve essere messo al riparo o protetto dall’eruzione stessa.
Ci sono tantissime classificazioni delle eruzioni. Un esempio è il diagramma di Walker, che si basa sulla distribuzione dei depositi esplosivi da caduta rispetto alla dimensione dei piroclasti che costituiscono un deposito. In sostanza si misura quanto i prodotti esplosivi sono andati lontano e quanto sono fini. Più sono andati lontano e più sono fini più l’eruzione è esplosiva.
Recentemente si è parlato del rapporto tra attività sismica e vulcanica, per esempio in relazione a uno sprofondamento dell’Etna e alla conseguente apertura di nuovi crateri. Che significato ha per le conoscenze che abbiamo oggi?
L’Etna, con un gioco di parole, si può definire «gigante dai piedi d’argilla». L’espressione è letterale, perché l’Etna è alto 3.300 metri, di cui circa 2.500 metri sono costituiti da materiale vulcanico che poggia su argille. Le argille, come sappiamo tutti, sono, come il fango, un materiale molto plastico, che si deforma facilmente sotto il peso del vulcano. Aggiungiamo che l’Etna verso nord e verso ovest è delimitato, e quasi bloccato, dalla presenza della catena Appennino-Magrebide, mentre verso est c’è il mare. Le argille formano un paleopendio verso il mare, perciò, se caricate dal peso del vulcano, scivolano verso il mare alla velocità di circa due centimetri all’anno, trascinando con sé il soprastante versante orientale del vulcano. L’Etna si muove anche di un centimetro all’anno verso sud, dove c’è la piana del Simeto, verso Catania. Quindi l’Etna, più che sprofondare, praticamente scivola e scivolando può richiamare dell’altro magma, come è successo nel caso dell’eruzione del 2002, quando il vulcano si è mosso all’improvviso di circa un metro nella zona sommitale, spostandosi verso il mare. Questo scivolamento ha richiamato magma e ha creato un’eruzione lungo il rift di Nord-Est.
Parete occidentale della Valle del Bove, situata sul versante orientale dell’Etna
Per quanto è successo tra il 24 e il 26 dicembre 2018 abbiamo avuto un importante rigonfiamento del vulcano di quasi 50 centimetri (il vulcano è cresciuto in altezza per il magma che stava arrivando verso la superficie) e ciò ha contribuito a destabilizzare il versante orientale, provocando un terremoto superficiale con conseguente scivolamento del versante orientale verso il mare di alcune decine di centimetri, danneggiando case e manufatti da Fleri sino quasi ad Acireale. Quindi c’è sicuramente una stretta relazione tra il vulcano, che poggia sulle argille nel versante orientale, l’attività eruttiva e i terremoti. Il rigonfiamento del vulcano Etna, che è culminato con l’eruzione del dicembre 2018, si è generato gradualmente nell’arco di un paio d’anni ed era monitorato. Infatti sulla superficie del vulcano ci sono decine di stazioni sismiche, telecamere, telecamere termiche e strumenti che misurano in continuo tutti quei parametri che indicano possibili modifiche che possono verificarsi nella camera magmatica. Infatti, il magma che si accumula nelle camere magmatiche è un fluido, perciò incomprimibile, e quindi ha bisogno di maggiore spazio nella crosta. Per creare questo spazio il vulcano si espande e in superficie si registra un rigonfiamento della superficie del vulcano. Per monitorare queste deformazioni superficiali si usano delle stazioni di rilevamento in punti fissi che operano in continuo misurando spostamenti sia in verticale che in orizzontale. È una rilevazione indiretta: la deformazione in superficie indica che la camera magmatica si sta ricaricando.
Stazioni di rilevamento sull’Etna (fonte INGV)
È possibile prevedere quando avverrà un’eruzione e se questa sarà più o meno dirompente? Per proteggersi da eventuali danni è sufficiente formulare un piano di evacuazione o ci sono altri provvedimenti da attuare? Esistono fenomeni vulcanici in aree dove non ci si aspettava?
Questo è l’elemento più problematico che affrontiamo come geologi. Posso dire che ci sarà un terremoto, ma non posso sapere esattamente né quando né dove avverrà. Lo stesso vale per i vulcani. Si può prevedere il massimo evento atteso, sia per i terremoti come per le eruzioni, perciò si possono costruire delle strutture in grado di resistere alle eruzioni, oppure evitare di costruire manufatti in luoghi pericolosi dal punto di vista sismico o vulcanico. Un esempio: se su un vulcano ho bisogno di costruire un bene che deve restare e aiutarmi in caso di emergenza, come per esempio un ospedale, cercherò una localizzazione che sia sufficientemente lontana dal vulcano o in una zona sicura del vulcano, in modo che in caso di emergenza l’edificio sia un punto che aiuti a gestire l’emergenza e non ad aggravarla.
Fontana di lava all’Etna (eruzione 2002)
Questi criteri valgono per qualsiasi vulcano, anche per il Vesuvio, per il quale spesso si parla di piani di evacuazione. Si deve cercare, dove possibile, di mettere in sicurezza le strutture e gli edifici e ovviamente le persone. Chiaramente l’Etna è più tranquillo del Vesuvio, perché normalmente ha eruzioni effusive e anche quelle esplosive non arrecano seri problemi alle popolazioni, al massimo hanno danneggiato i frutteti e limitato il traffico aereo. È un rischio accettabile. Occorrerebbe però una pianificazione territoriale nel futuro per evitare di costruire gli edifici che desidero mantenere nel tempo in zone estremamente pericolose. Per esempio, un prefabbricato in legno sull’Etna a 3.000 metri ha molte probabilità di essere perso, magari anche in breve tempo, mentre non ci si può permettere che un ospedale, una strada principale o un metanodotto siano danneggiati da un’eruzione vulcanica, quindi occorre localizzarli laddove la pericolosità è estremamente bassa. Per prevenire i rischi conviene costruire le infrastrutture nelle aree dove il pericolo è più basso. In casi come il Vesuvio, l’Etna, le Hawaii, abbiamo un sistema di alimentazione e di risalita del magma abbastanza costante e ben conosciuto, abbiamo la possibilità di prevedere dove si potrà aprire una prossima bocca, anche se capita che sull’Etna o alle Hawaii si aprano bocche laterali che non sono facili da prevedere.
Il vulcano Paricutin, in Messico (fonte Worlds Incredible)
C’è anche la possibilità che occasionalmente sorga un vulcano dal nulla, però è un evento raro e anche meno prevedibile, perché non è facile stabilire dove possa aprirsi una nuova frattura eruttiva e crescere un nuovo vulcano, come successe in Messico nel secolo scorso: il 20 febbraio 1943, in un campo in cui un contadino stava arando, è spuntato «dal nulla» il vulcano Paricutin. L’emissione di lava è cominciata improvvisamente ed è continuata per circa sette anni.
a cura di Maria Cristina Speciani(Redazione Emmeciquadro)Gianluca Groppelli(Geologo, professore di Vulcanologia e Geologia del Vulcanico presso l’Università degli Studi di Milano e Milano-Bicocca, Ricercatore dell’Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali C.N.R., Milano)