Sciopero (illegittimo) per Gaza. In molti si sono fermati. Pochi studenti hanno scelto di esserci e sono venuti a scuola. Cronaca di un’ora di lezione
Sciopero generale per Gaza. Non ho aderito. Entro a scuola in terza ora non senza un certo disagio. I raggi del sole, grazie alle ampie vetrate, illuminano il piano che ospita le mie classi. Alcuni colleghi sono seduti sui divanetti attorno alla macchina da caffè.
Se sono pochi gli insegnanti che scioperano, il 98 per cento degli studenti, invece, non è entrato. I pochi presenti sono stati raccolti nella stessa aula. In attesa della campanella, mi avvicino alla macchina da caffè. Il dialogo tocca solo di sfuggita il tema delle manifestazioni in corso in tutta Italia e finisce fatalmente sui pochi alunni presenti.
“Be’, se sono entrati – commenta un collega – vuol dire che sono d’accordo”. La frase resta in sospeso, ma sembra vagamente fare intendere che chi non ha manifestato giustifichi quanto accade in Palestina. “Attento – dico con tono ironico –, se fosse così significherebbe che anche noi, che non siamo in piazza, saremmo d’accordo”.
Il collega non ribatte e io devo oramai entrare in classe. La frase rimasta in sospeso poco prima è ancora lì, che incombe e attende una risposta più adeguata quando entro in classe.
“E voi, perché siete entrati?” chiedo ai miei studenti. Come sempre accade, le risposte dei ragazzi sorprendono. “Mio padre mi ha detto di entrare” afferma Giulia senza imbarazzo. “Ma tu – insinuo – ti sei limitata a obbedire, o hai chiesto le ragioni?” “Sì, professore, ho chiesto e papà mi ha detto che il mio modo di essere utile al popolo palestinese era quello di entrare a scuola”.
Vorrei stringere la mano a quel genitore! – e lo dico alla figlia. Se io non ho aderito allo sciopero, infatti, non è certo perché sono indifferente o, peggio, connivente col massacro in atto e la disumanità di un atteggiamento, quello del governo israeliano, che esprime solo odio e desiderio di annichilire il nemico, costi quel che costi, a cominciare dal sangue innocente.
Come il genitore della mia alunna, anch’io sono convinto che per cambiare il mondo sia necessario entrare a scuola anziché disertarla. “Sono d’accordo con tuo papà – le rispondo. – Siamo a scuola per costruire qui un luogo in cui prevalga il dialogo, in cui, ogni mattina, siamo contenti di andare, in cui scoprire insieme il senso delle cose e di noi stessi”.
È vero, però, che si può aprire il registro elettronico, la prima ora, e introdurre i ragazzi in una dimensione asettica in cui “si deve svolgere il programma”, una dimensione in cui quello che si studia in classe non c’entra con quello che accade tra le macerie di Gaza. Oppure si può aprire il libro cercando di cogliere tra le righe il grido dei popoli del passato e di quelli di oggi.

“Io sciopererò perché voglio fare sentire la mia voce – mi aveva invece spiegato il giorno prima una collega –. Tra il non fare nulla e il fare qualcosa, meglio fare. Anche col rischio della strumentalizzazione”.
È davvero questa l’alternativa? Ci si può solo schierare? L’unica via percorribile è quella di scendere in piazza con le bandiere degli uni contro gli altri? Di assecondare quella che, comunque, al di là degli estremismi, resta una logica dello scontro? Persino alcuni preti sembrano assecondare questa logica. Pregare? Non basta, bisogna agire!
Meglio dunque se anche la barca di Pietro forza i blocchi, invece di invitare alla preghiera per la pace? Non ho mai pensato alla preghiera come a una formula magica che fa accadere ciò che abbiamo in testa noi, ma sul fatto che accenda, innanzi tutto in chi prega, il desiderio del bene che chiede per tutti, su questo non ho dubbi. Il mondo cambia già, se cambio io.
Restano, però, la desolante realtà di Gaza e il bisogno estremo di chi vi è rimasto. Sì, qualcuno è rimasto. La Chiesa. Attraverso la voce umanissima di mons. Pizzaballa che chiede di uscire dal groviglio di “odio, disprezzo e rancore” che impedisce di riconoscere l’altro e poi, attraverso quel luogo di incontro e di condivisione di quel poco che c’è costituito dalla parrocchia di padre Romanelli.
Alcune sigle sindacali hanno proposto di donare il corrispettivo della giornata di lavoro che si perderebbe scioperando a un’associazione che aiuta chi resta in quella terra per edificare ciò che vorrei anch’io contribuire a costruire a scuola. Mi sembra un’alternativa concreta. In una logica diversa.
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