Disegni, canti, testi, poesie, gesti pubblici in piazza per dire la volontà di affermare la pace, di lasciare alle spalle la terribile esperienza della guerra, che ha interessato e sta interessando l’Europa.
Le nostre case da giorni sono invase da immagini di guerra e distruzione veicolate dalla televisione e dai social. Gli studenti, a partire dai piccoli della scuola dell’infanzia per arrivare ai più grandi, portano a scuola le loro emozioni, paure, ansie, domande e chiedono di poter dire pubblicamente la loro volontà di opporsi alla guerra. Corridoi, atri, persino i cancelli degli edifici scolastici si sono riempiti di cartelli e di simboli che inneggiano alla pace.
I bambini della scuola primaria e i ragazzi della scuola secondaria dell’istituto comprensivo che dirigo hanno raggiunto la piazza della città per dire davanti a tutti, con la musica e la lettura di testi, la loro condanna della guerra e l’hanno fatto da protagonisti, rispondendo a un’esigenza e una volontà personale, non trascinati dagli adulti. Il gesto pubblico ha certamente un valore importante, perché comunica davanti a tutti un giudizio, una scelta, una posizione non neutra di interpretazione della realtà e della storia.
Ma forse il compito educativo degli adulti chiede ulteriori attenzioni oltre alla condanna pubblica della guerra, per generare una concreta ed esperienziale educazione alla pace.
Si potrebbe altrimenti correre il rischio di fermarsi a una condanna astratta, che vede questi gesti come atti lontani da una quotidianità, che continua identica senza interruzioni e cambiamenti o di lasciarsi vincere dallo sconforto e dall’impotenza, perché nulla sembra possibile davanti ai potenti che decidono il destino di un’intera nazione. Che cosa possono fare dei ragazzi davanti a un esercito che invade un Paese e costringe la popolazione a scappare per poter sopravvivere?
“La pace comincia a scuola” mi è capitato di leggere su un cartello tenuto nelle mani di due ragazzini. L’educazione alla pace, per non essere un proclama astratto, inizia a partire dall’educazione di ciascun individuo e solo la qualità delle relazioni può rendere gli ambienti luoghi di pace vissuta e sperimentata.
Per non cadere nella tentazione dell’astrazione e dell’impotenza, rischi possibili anche per gli adulti, l’unica strada percorribile è dunque quella di educare i nostri studenti a comprendere il senso, la genesi dell’aspirazione alla pace che alberga dentro ciascuno di noi. Aspirazione che si manifesta nel desiderio di essere amati, di essere riconosciuti come unici.
L’ha ricordato Alessandro D’Avenia nella sua rubrica sul Corriere della Sera del 28 febbraio: “Ci riempiamo la bocca della parola pace, ma poi a partire dal nostro sistema educativo costruiamo la cultura sulla competizione e non sulla cooperazione. Per educare alla pace bisogna prima che ciascuno scopra la sua unicità e poi che capisca che, per realizzarla, la strada migliore è metterla a disposizione di altri. Se tutto è invece centrato sull’affermazione della propria potenza, sin da bambini impariamo a vedere accanto a noi ostacoli, non alleati necessari a raggiungere obiettivi più grandi di quelli perseguibili da soli. Questo vale per gli studenti di una classe come per le nazioni di un continente: non saranno unite dalla stessa moneta ma solo dalla qualità delle loro relazioni”.
Essere per la pace equivale allora a essere tenaci costruttori di relazioni di qualità, di ambienti dove l’io non è pensabile se non dentro la relazione con un tu, con i diversi tu che compongono per esempio una classe.
In questi giorni stanno cominciando ad arrivare nelle scuole i primi studenti ucraini. Il loro arrivo è stato preceduto da un’attesa piena di curiosità, di apertura, di immediata empatia e gli studenti si sono mossi per accogliere con gesti calorosi i compagni che sono stati costretti a lasciare il loro Paese. Compito educativo degli adulti a scuola è sostenere questo desiderio e farlo crescere nella consapevolezza che ciascuno di noi conquista la sua piena umanità nell’accoglienza dell’altro. Non siamo fatti per vivere soli, ma per stringere legami.
Per costruire questa qualità delle relazioni occorre però accettare la propria fragilità, non sentirla come nemica, ma considerarla come condizione privilegiata per la costruzione di una personalità matura. La terribile esperienza della guerra e dell’esodo forzato di tante persone e tanti bambini dalla loro terra ci ricorda ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di che cosa è fatto il cuore dell’uomo; di un desiderio di essere riconosciuto come unico e per questo amato e stimato.
Accogliere l’altro diventa vedere in chi ci sta intorno lo stesso desiderio e prendercene cura. Quando però questo desiderio viene soffocato o calpestato, l’io rischia di diventare ipertrofico, si illude di credere che la realizzazione di sé sia nell’affermazione violenta delle proprie idee che non lascia più spazio alla relazione con l’altro, se non come prevaricazione e sopruso.
Queste posizioni estreme possono essere favorite da un’educazione che enfatizza e considera prioritario il valore della performance, della competizione, visione che spesso alberga nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie. Si tratta di una prospettiva che censura la vera natura del cuore umano, permeata da una fragilità che non deve essere soffocata o rimossa, ma accolta come strada verso relazioni di qualità. Volere la pace in una scuola non può essere che la rinnovata decisione per questo compito educativo degli adulti nei confronti delle nuove generazioni.
Solo questo impegno può aiutarci a trovare la speranza in un momento buio, come ci ricorda ancora D’Avenia in chiusura dell’articolo a cui si è fatto cenno sopra: “… non posso ignorare che a noi è affidato il compito e il coraggio di aprire un’epoca nuova sulle macerie dell’attuale. (…) Lì dove siamo, oggi, a partire da come tratteremo chi ci sta accanto, da come collaboreremo con i colleghi, da come staremo nel traffico. Solo questo potrà liberarci dal pessimismo che attanaglia il nostro cuore”.
Si potrebbero parafrasare le sue parole, contestualizzandole tra le mura della scuola, per affermare che è e sarà solo la cura delle relazioni tra gli studenti e con gli adulti a fare la differenza per un reale impegno per la pace.
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