La ribellione all’orale esame di maturità dovrebbe suscitare simpatia, perché è una assunzione “politica” di responsabilità
Caro direttore,
diciamolo: sulla questione del rifiuto di svolgere il colloquio di maturità si è scritto molto, forse troppo. Allora, delle due una: o – come spesso accade – si è spettacolarizzato un fatto di per sé marginale; oppure l’accadimento ha colto nel segno e ha avuto l’eco che effettivamente si meritava.
Personalmente sono per la seconda ipotesi.
Mi sono chiesta come sia stato possibile che per soli quattro studenti in tutta Italia, rispetto alle migliaia che hanno sostenuto l’esame, ci sia stato tanto clamore. Solo quattro studenti: eppure, hanno fatto centro.
Di fronte a tale genere di protesta, il ministro Valditara non poteva che reagire come ha reagito. Un esame è un esame, non è uno scherzo, e non è “modellabile” a piacimento dei candidati. Ma contemporaneamente non ho potuto non provare una profonda simpatia umana per questi “quattro moschettieri”, se così li possiamo chiamare.
Perché mi sono immedesimata in questi studenti: che cosa li ha spinti a tale gesto? E come hanno maturato tale decisione? Qualcuno ha detto che è facile fare quello che hanno fatto, che sono scappati dalle loro responsabilità.
Vero. Ma è altrettanto vero che hanno preso una decisione seria nei loro stessi confronti: perché scegliere di non svolgere il colloquio, significa optare per una valutazione molto bassa, sicuramente minore di quella che avrebbero potuto raggiungere. Quindi, ci hanno rimesso del loro, e questo non è un aspetto marginale.
L’attuale maturità non è peggiore delle numerose edizioni dei decenni precedenti: certamente le modalità di svolgimento dell’esame rendono la valutazione poco veritiera. Ma ciò è successo anche nei passati esami di Stato. E in fondo non si può neppure dire che questo esame sia particolarmente rigido (visto che il tasso di promossi è del 99,8%): e i voti sembrano lievitare ogni anno di più.
Quindi, perché protestare? I ragazzi hanno dato le loro motivazioni, dichiarandosi contrari alla valutazione scolastica che riduce gli studenti a numeri, e denunciando che la scuola non è mai riuscita a conoscerli davvero come persone.
Ma non è questo quello che mi ha colpito, cioè non sono le motivazioni – pur molto significative – ma il fatto in sé, cioè che abbiamo protestato pubblicamente, che abbiano posto un gesto non privato. Forse un atto scorretto, goffo, esagerato o inconcludente, a secondo di come lo si voglia valutare, ma lo hanno posto, senza ledere gli altri ma auto-punendosi.
Si sono ribellati in una scuola dove gli studenti non esprimono più un pensiero “politico” in senso lato: cioè non si interessano più di ciò che sta intorno a loro, ma quello che prevale è l’interesse “privato”: si è persa ogni speranza nella possibilità di dire qualcosa sulla realtà e si pensa solo al proprio tornaconto personale. Loro hanno tentato di porre un gesto pubblico, forse inconsapevolmente.
Oggi nella scuola i ragazzi spesso sono omologati e passivamente supini al sistema: certo, si lamentano, hanno da dire e ridire della scuola: ma quando mai passano dalle proteste, dalle lamentazioni, dagli sbuffi, ad una contestazione argomentata e a un atto di ribellione? Quando i nostri studenti sono stati capaci di dire: la scuola così com’è non ci va bene? Ma in modo chiaro, personale, cioè con un giudizio? Cercando di trovare una via praticabile per protestare e cambiare le cose?
Almeno con questo comportamento i ragazzi hanno articolato un’opinione sulla situazione e hanno tratto delle conseguenze operative: si sono mossi contro il qualunquismo personalistico dei tanti giovani che non hanno nulla da dire sulla realtà, che non fanno neppure lo sforzo di tentare una valutazione della situazione, trincerandosi dietro l’idea che “tanto non serve, perché non cambia nulla”. Questo sì è inutile, ma i “quattro moschettieri” le loro spade le hanno sguainate.
Insomma, finalmente questi ragazzi hanno osato un giudizio, si sono posti sulla scena pubblica, hanno tentato un gesto: ci sono stati, hanno agito, hanno detto “eccoci”. Bravi, perché – paradossalmente – questa è la vera educazione civica, non quella che si studia nel chiuso di aule scolastiche che sembrano veramente avere dimenticato la realtà fuori dalla porta.
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