Hikikomori è una parola giapponese che letteralmente vuol dire “stare in disparte, isolarsi”. Il termine sta entrando nel vocabolario internazionale, persino in quello scientifico e psicanalitico, perché il fenomeno a cui si riferisce, tipico del Giappone alle sue origini negli anni Ottanta, sta pian piano estendendosi al resto del mondo, principalmente ai paesi occidentali avanzati, nordamericani ed europei.
Gli hikikomori sono persone che si chiudono in se stesse e nella propria camera, isolandosi per mesi o anni dalla società; rifiutano il contatto con gli altri, con gli impegni, persino con la famiglia. Come afferma Marco Crepaldi, presidente dell’associazione “Hikikomori Italia”, vivono in un eterno presente, scambiano il giorno con la notte, annullano la scansione del tempo in ore e giorni, annullano i calendari, i rapporti, tutto. Nei casi estremi non escono dalla propria stanza neppure per i bisogni igienici.
Per la stragrande maggioranza si tratta di ragazzi in età da scuole superiori. Statisticamente il problema insorge intorno all’età di quindici anni e può arrivare spesso ai vent’anni. Ragazzi che perdono nel nulla l’adolescenza. È un fenomeno dalle proporzioni impressionanti: in Giappone gli hikikomori sono mezzo milione, ma anche in Italia non scherziamo: pare che allo stato presente 100mila italiani siano hikikomori. Ciò significa che in ogni piccola città di provincia dove quasi tutti viviamo siamo concittadini di circa un centinaio dei nostri giovani che hanno deciso di non uscire più di casa. “Hanno deciso” è il verbo giusto: spesso di punto in bianco qualcosa nel loro cuore si rompe e li porta al rifiuto del mondo. Basta, in questo mondo io non ci voglio più stare, dicono. E si rinchiudono in camera.
Essendo quasi tutti in età scolare, il dito d’accusa degli specialisti è puntato contro la scuola: troppe pressioni, troppa competitività, eccessivo spostamento verso un’idea di studio come prestazione, in cui i risultati quantitativi contano più del percorso generale di maturazione della persona. Ma per gli studiosi che meglio hanno approfondito il problema, la scuola è stato solo l’ultimo tassello, la scintilla che ha fatto esplodere una situazione già in atto probabilmente da tempo, una miscela di elementi psicologici e sociali che già covava dentro questi ragazzi, come afferma la psicologa e psicoterapeuta Giovanna Borsetto: “L’aiuto ha a che fare con una dimensione psicoterapeuta che sostenga il soggetto a riprendere il percorso evolutivo e aiuti i genitori ad elaborare e rivedere la loro posizione rispetto al figlio”.
La famiglia, dunque; anch’essa intesa come luogo di pressioni, di aspettative, di richiesta di adesione a un modello, generalmente quello borghese di realizzazione sociale ed economica, a cui anche la scuola dovrebbe sottostare, coi suoi voti, le sue verifiche, le sue valutazioni. E qualche figlio non regge. “Quando nessuno di noi ha avuto aspettative su di lei, abbassando tutte le asticelle, lei ha iniziato a migliorare. Sono finiti gli attacchi di panico e da un po’ di tempo ha ricominciato a uscire. Tolta la pressione, cioè quello che innesta questo ritiro a costo di fare sacrifici, abbassare le normali aspettative che ha un genitore rispetto a un figlio, loro stanno meglio” ha testimoniato una madre, raccontando di sua figlia.
Alle considerazioni certamente più competenti degli esperti e di chi, come i genitori, hanno vissuto sulla propria pelle quello che viene considerato un vero e proprio “trauma” famigliare, potremmo aggiungerne un’altra, più generale: non abbiamo forse costruito tutto il mondo in questo modo?
L’essere costantemente all’altezza, la vita come prestazione coinvolge tutti i luoghi, tutte le proposte di vita che i giovani ricevono. Andare in discoteca richiede esserne all’altezza; vivere in un gruppo, frequentare le movide delle nostre città, gestire un profilo sui social, tutto richiede una continua prestazione; nelle parole, nei gusti, nell’abbigliamento, nella conoscenza di ciò che accade, in genere virtualmente, sui mezzi di quello spettacolo a cui abbiamo ridotto l’esistenza. Persino il sesso, oggi, è una prestazione. Noi non valiamo per ciò che siamo, per il fatto stesso di essere al mondo: valiamo se siamo all’altezza dell’offerta del mondo, a casa, a scuola, forse anche sul muretto dove si incontra il gruppo di presunti amici. Poi qualcuno, forse più fragile ma certamente più sensibile, se ne accorge e dice: qui non ci voglio più stare.
Chissà, forse gli hikikomori ci vedono meglio, sono più intelligenti: una società che ha la presunzione di offrire chissà che, persino tutto il mondo, in realtà non ha un granché da offrire. Soprattutto l’essenziale. Davvero vale la pena spenderci la giovinezza? Questo dobbiamo chiederci. Soprattutto meglio ascoltare le parole di uno di questi ragazzi, per capire davvero:
“Più mi dicevano di uscire, vivere, cambiare, andare a scuola, più pensavo: o mi rinchiudo completamente e non esco più, o mi tolgo la vita. È stato un processo involontario, mi sono isolato perché non volevo tornare in classe, la società non era quello che pensavo fosse, non volevo più fare niente. L’hikikomori è il prodotto di un ambiente che non capisce l’individuo che sta scartando, che sta ignorando. Che delusione. Siamo tutti diversi, anche io mi sento deluso dalla mia storia, ho sempre voluto che qualcuno che mi tendesse la mano, ma non è stato così. Non ho ricevuto aiuto da nessuno. È come se mi avessero spinto indirettamente a essere hikikomori, anche se è stata una scelta mia”.