Cassazione: insulti ripetuti come "cicciona" alla figlia integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, non solo episodi isolati.
Se si leggono le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione del 15 settembre 2025, non c’è ragione di meravigliarsi se il padre che ha chiamato la figlia “ciccione” è stato condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia. I fatti contestati sono ben più gravi della pronuncia di un epiteto offensivo.
Dalla ricostruzione dei fatti, come descritti in sentenza, le frasi denigratorie rivolte dal padre alla figlia sarebbero state infatti continue, ripetute nel tempo ed altamente offensive. L’uomo apostrofava la figlia non solo chiamandola cicciona, ma anche con frasi quali: “fai schifo, susciti repulsione in me e in chi ti guarda”.
È chiaro che tale modalità di rapporto aveva creato nella famiglia “un clima di vita svilente e umiliante”, in quanto gli epiteti riguardavano un tema, l’aspetto esteriore di una giovane in piena età evolutiva (all’epoca dei fatti era undicenne), che impattava pesantemente sul percorso di crescita della ragazza.
Oltre a queste umilianti aggressioni verbali vi fu anche un episodio di violenza fisica, a comprova di un clima di complessiva sopraffazione che certamente, per i giudici di merito e di legittimità, comprovava la sussistenza del reato.

Anche in punto di prova, secondo la sentenza, non vi sarebbero stati dubbi sulla responsabilità del reo. La madre della ragazza aveva infatti confermato “i comportamenti svilenti e maltrattanti” del marito e la sorella aveva riferito che il padre aveva l’abitudine di insultare le persone. Vi era poi agli atti una relazione dei servizi sociali che confermava il disprezzo che il padre nutriva nei confronti della figlia per le sue caratteristiche fisiche.
Nessun dubbio in merito alla responsabilità dell’imputato ha quindi avuto la Suprema Corte, la cui costante giurisprudenza ha sempre ritenuto che il delitto di maltrattamenti in famiglia postula il sistematico, cosciente e volontario compimento di atti di violenza fisica e morale in danno della vittima, condotte che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali per quest’ultima, nei cui confronti viene così posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica, tale da rendere particolarmente dolorosa ed umiliante la convivenza familiare.
Infatti, nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia, ricorda il Supremo Collegio, non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
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