Lo smart working è divenuto una pratica molto diffusa anche alle nostre latitudini, complice la pandemia di Coronavirus che ha costretto numerose aziende a rivedere la metodologia di lavoro dei propri dipendenti, complice l’impossibilità di recarsi in ufficio. Capita, però, che nel novero dei tanti lavoratori che svolgono seriamente la loro professione anche da remoto, vi sia anche qualcuno che provi ad approfittarsene, fingendo di dedicarsi ai compiti che gli sono stati assegnati, senza in realtà soffermarvisi nemmeno per un singolo minuto.
È il caso della 27enne e analista finanziaria Karlee Besse, che prestava servizio in smart working per una società di consulenze fiscali e commerciali in Canada, più precisamente nella British Columbia. La sua vicenda è stata raccontata da “La Stampa”: sostanzialmente, “la società che l’aveva assunta, la Reach Cpa, non soddisfatta del suo operato durante lo smart working, ha deciso di attivare un controllo in più, di cui Karlee non sapeva niente”, ovvero “un software spia, in grado di tracciare e monitorare il tempo impiegato davanti al computer”.
27ENNE IN SMART WORKING LICENZIATA: AZIENDA LA SPIAVA CON UN SOFTWARE E…
Naturalmente, quando la 27enne ha ricevuto la comunicazione del licenziamento, ha scelto di adire le vie legali per essere risarcita, in quanto credeva che il lavoro in smart working le fosse stato tolto senza preavviso e senza giusta causa. È stato allora, però – si legge su “La Stampa” – che l’azienda “ha tirato fuori l’asso nella manica, documentando il fatto che per una cinquantina di ore l’impiegata non avrebbe lavorato ai compiti che le erano stati assegnati. Karlee non solo ha perso la causa, ma ha dovuto pagare all’azienda più di duemila dollari”.
Peraltro, secondo quanto riferito ancora dal quotidiano avente sede a Torino, in un incontro video registrato tra la 27enne e i suoi capi, lei “aveva ammesso di non essersi comportata bene”. A quel punto, il giudice Megan Stewart ha concluso che il software aveva accuratamente registrato il lavoro non svolto: “Considerato che fiducia e onestà sono fondamentali in un rapporto di lavoro, in particolare quando si parla di smart working, ritengo che il licenziamento sia stato proporzionato alle circostanze”, ha sentenziato.