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Home » Esteri » Europa » SPILLO/ Catalano lingua Ue? Quel no a Sánchez “socialista & sovranista”

  • Europa
  • Esteri

SPILLO/ Catalano lingua Ue? Quel no a Sánchez “socialista & sovranista”

Nicola Berti
Pubblicato 2 Giugno 2025
Sanchez, Spagna

Spagna riconosce lo Stato di Palestina: l'annuncio del Premier Sanchez alla Moncloa (ANSA-EPA 2024)

Il Governo spagnolo ha chiesto il riconoscimento del catalano tra le lingue dell'Ue, ma non è riuscita a ottenerlo

Il Consiglio dei ministri degli Esteri Ue non ha approvato la richiesta del Governo spagnolo di iscrivere fra le lingue ufficiali dell’Ue il catalano, il galiziano e il basco. Sette Paesi hanno espresso riserve (Germania, Italia, Austria, Croazia, Svezia, Finlandia e Repubblica Ceca) e fatto quindi mancare l’unanimità necessaria. Le lingue ufficiali dell’Unione restano dunque 24: tre in meno dei Paesi membri e compreso l’inglese.


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Rimangono intanto una sessantina le lingue regionali o minoritarie in Europa di volta in volta agitate in via più o meno strumentale rispetto a istanze autonomiste o separatiste. Il caso spagnolo sembra tuttavia meritare qualche postilla: anche perché Madrid ha già fatto sapere di non considerarlo chiuso; e soprattutto perché il dossier presenta visibili valenze politiche di livello europeo.


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Non è un mistero che la richiesta ostentatamente portata dal Governo di Pedro Sánchez al massimo organo decisionale dell’Unione sia l’eredità lunga di un caso politico estremamente controverso, sia in Spagna che in Europa. Sánchez, leader socialista, ha perso le elezioni nel 2023 contro il Partido Popular, ma è riuscito a conservare il premierato grazie a un accordo rocambolesco e semi-segreto con i piccoli partiti rappresentanti di tre minoranze etnico-linguistiche: i baschi, ormai oltre la sanguinosa guerra civile condotta dall’Eta; i galiziani e soprattutto i catalani.


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Di questi ultimi il ricordo della dichiarazione d’indipendenza dell’autunno 2017 – di fatto un fallito tentativo di golpe separatista – è ancora talmente fresco e attuale che il leader di quella rivolta, Carles Puigdemont, è ancora latitante, inseguito da mandati di arresto spiccati dalla magistratura spagnola.

Questo non gli ha però impedito di essere eletto all’Europarlamento (potendo stabilirsi infine in Belgio protetto da un’immunità di fatto) e poi di negoziare l’appoggio dei suoi parlamentari di Junts al governo socialista: sempre da ricercato all’estero per gravi crimini contro lo Stato spagnolo.

L’accordo – i cui contenuti non sono mai stati rivelati da Sánchez alle Cortes – ha ricompreso anzitutto un’amnistia per i partecipanti al golpe separatista. Una normativa in questa direzione è stata varata, ma il Tribunale supremo spagnolo ha negato che Puigdemont ne possa beneficiare.

Ora è evidente che la pressione di Madrid sullo status della lingua catalana risponda a un altro impegno non scritto preso da Sánchez con Puigdemont: il quale preme verosimilmente sul Governo di Madrid per “europeizzare” di nuovo il suo caso a proprio vantaggio. Ma l’Ue – attraverso la Corte di Giustizia – ha già preso chiaramente le distanze da Puigdemont, che ancora nel settembre scorso aveva reiterato la richiesta di pieno riconoscimento dello status di europarlamentare eletto nel 2019. All’epoca della sua elezione, il leader catalano non aveva giurato fedeltà alla Costituzione spagnola.

Più di sette anni dopo il fallito golpe di Barcellona, comunque, Puigdemont è ancora visibilmente in grado di condizionare (ricattare?) il Governo di un importante Stato-membro dell’Ue, anzi: del più importante fra i pochi Paesi dell’Unione ancora guidati da un Governo socialista. Costretto, Sánchez, a vestire a Bruxelles i panni del fan sovranista quando i socialdemocratici europei strillano ogni giorno contro ogni varietà di nativismo, giudicato fenomeno tipico del populismo anti-europeo (di destra).

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