Si riaccende il caso Washington Post, dopo che il proprietario Jeff Bezos ha imposto alcune linee guida sui contenuti
Il Washington Post è di nuovo nella bufera. Il capo della pagina dei commenti ha sbattuto la porta dopo che l’editore – il patron di Amazon Jeff Bezos – ha voluto porgli guidelines precise per le posizioni del quotidiano (peraltro: “Libertà individuali e libero mercato”). La polemica – fra politica e media – si è subito riaccesa, dopo che alla vigilia del voto presidenziale Bezos aveva bloccato un endorsement del WP a favore di Kamala Harris, nel solco di una tradizione pro-dem. Durante l’inauguration day il capo di Amazon è stato invece ritratto alle spalle di Donald Trump in una “foto di famiglia” con gli altri tycoon di Big Tech, primo fra tutti Elon Musk.
Lo schema mediatico dell’ennesimo caso WP è quello prevedibile: c’è un editore-padrone che vorrebbe piegare la libertà di stampa e la tradizione di indipendenza di una redazione carica di glorie “democratiche” (prima fra tutte la campagna del Watergate). È una narrazione che non è priva di fondamento, ma che appare riduttiva per un case-study complesso.
I giornalisti contestano a Bezos di voler usare il giornale per ottenere il favore – o almeno la non ostilità – della nuova Casa Bianca trumpiana verso Amazon. C’è del vero, ma è vero anche che il WP negli ultimi quattro anni è stato strutturalmente partizan verso la presidenza di Joe Biden: la cui Amministrazione ha inizialmente ventilato e in parte impostato azioni contro Amazon (Big Tech in generale) sul terreno antitrust.
Tutte le iniziative della FTC, capitanata da una giovane avvocatessa di origini anglo-pachistane, si sono però ritrovate nel bilancio fallimentare della presidenza dem. Sono state archiviate – anzitutto dagli elettori – come molte delle incompiute di Biden: sempre incalzato dall’ala radicale del partito (quella che ha fra l’altro bloccato lo sbarco in forze di Amazon a New York), ma mai davvero incisivo contro i nuovi potentati economici digitali. È un Presidente che il WP ha sempre sostenuto fino all’ultimo, non accelerando veramente sul fronte “dem” della tutela dei consumatori nell’e-commerce. Il quotidiano ha così marciato in parallelo alla Casa Bianca nel dare favore di vento non solo al tifo politico dei giornalisti, ma anche agli interessi economici dell’editore.
Il conflitto d’interessi fra Bezos e il maggior quotidiano della capitale statunitense viene improvvisamente sbandierato dai giornalisti solo dopo che la battaglia per le presidenziali è stata combattuta e persa e che alla Casa Bianca è approdato un Presidente repubblicano: che la redazione aborre forse più ancora di Richard Nixon e vorrebbe combattere ogni giorno (anche sulla scia del “conflitto d’interessi” creato dalle opinioni personali e dai collegamenti politici prevalenti nella newsroom).
È comunque venuto al pettine un nodo che esiste da 12 anni: da quando il patron di Amazon ha comprato il WP. L’America era allora all’apice della stagione Obama-Biden e Mr Amazon lasciò inizialmente che il giornale assecondasse i propri “animal spirits”: favorendo però nel contempo un’Amministrazione dem che neppure allora torse un solo capello a Big Tech (semmai il contrario).
La questione di fondo appare oggi quella di sempre: di chi è un giornale? Dell’editore? Dei giornalisti? Dei lettori, come sosteneva proverbialmente Indro Montanelli? Questi ultimi – secondo stime diffuse dalla concorrenza – avrebbero preso a disamorarsi del WP dopo le svolte impresse da Bezos. E la redazione è naturalmente preoccupata che l’editore approfitti di un calo delle vendite per operare nuove ristrutturazioni anche nella newsroom. Ma il futuro incerto di un gruppo media tradizionale nell’era digitale è stata esattamente la ragione per la quale nel 2013 il WP è stato messo in vendita dagli eredi di Katherine Graham.
Graham è stata la “publisher” leggendaria, garante di tutte le battaglie del Post, dai Pentagon Papers al Watergate. La “miliardaria democratica” era vicina di casa dei Kennedy a Washington negli anni d’oro della Casa Bianca e dopo. È stata fino alla morte, nel 2001, la datrice di lavoro di giornalisti celebrati anche da Hollywood: Tutti gli uomini del presidente vinse quattro Oscar e nel film postumo The Post – diretto da Steven Spielberg – la stessa Graham è impersonata da Meryl Streep. Ma nel 2017 il proprietario era già Bezos: un capitalista digitale che quattro anni prima aveva sborsato 250 milioni di dollari. All’asta altri non hanno fatto offerte altrettanto competitive.
Stessa sorte è toccata nel frattempo ai “cugini” del Los Angeles Times, acquistato nel 2018 da un medico-finanziere del biotech, nato da una famiglia cinese in Sudafrica, Soon Shiong, lui pure accusato ora dai suoi giornalisti di virate pro-Trump. Un magazine super-storico come Time è stato invece salvato da Marc Benioff: un recente peso massimo della Silicon Valley, produttore di tecnologie per l’e-commerce e grande fornitore di sistemi cloud ad Amazon.
Un giornale è – fondamentalmente – di chi via via ne è il proprietario e nell’impresa editoriale rischia i suoi capitali. È fatto dai giornalisti che via via si ritrovano in redazione. È acquistato dai lettori che via via scelgono di esserlo. Il caso Washington Post non finisce oggi: forse anzi comincia.
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