Di fronte alla crisi della UE Draghi chiede più Europa, ma la sua ricetta ha già fallito. Lo dimostrano il Regno Unito e le ultime politiche USA
Il mitico Mario Draghi è intervenuto al Meeting di Rimini per diffondere le sue perle di saggezza. L’uomo che le ha sbagliate tutte (come quando voleva farci scambiare il condizionatore per la pace ma dopo tre anni c’è ancora la guerra, o quando annunciò l’imminente crollo economico della Russia a causa delle sanzioni, ma in questi tre anni il Pil russo cresce di più di quello europeo e la bilancia commerciale scoppia di salute), ha sentenziato: chi ancora si era illuso che avere un grande mercato unico portasse anche una rilevanza politica, ricorderà questo anno come la fine di questa illusione.
Ha fatto bene a dirlo, perché ancora oggi di illusi che continuano ad affermare che l’Europa è necessaria per contare qualcosa e che “non possiamo stare da soli” ce ne sono tanti. Anche se non sanno spiegare perché la Gran Bretagna sia uscita e neppure come fanno “da sole” la Svizzera o l’Ungheria.
Ovviamente Draghi non può lasciare tanti orfani in giro che vagano senza meta e quindi offre loro una strada sicura. Cosa si fa di fronte al fallimento e alla irrilevanza dell’Europa? Semplice, ci vuole più Europa. Prima afferma che un grande mercato non porta necessariamente ad una rilevanza politica, poi come ricetta propone riforme di tipo… economico.
Nel discorso di Draghi vi sono stati un paio di passaggi che io definirei esilaranti; come esempio positivo di integrazione europea, ha citato la pronta risposta a livello europeo nel piano di vaccinazione della popolazione, oscurando il fatto che si è trattato di vaccini prodotti dagli USA; e poi ha affermato che la presenza di cinque leader di Stati europei nell’ultimo incontro alla Casa Bianca è stata “una manifestazione di unità”: al contrario, dopo l’incontro tra Donald Trump e Ursula von der Leyen e dopo le furiose critiche a quest’ultima, la presenza di cinque leader di Stati europei ha reso evidente la loro divisione e il fatto che ciascuno vuole essere presente per difendere i propri interessi.

E niente, i fautori dell’ideologia del libero mercato non ce la fanno proprio a uscire dal loro castello ideologico e a comprendere che il mondo può funzionare in modi molto differenti, in tempi differenti. Voglio dire che il libero mercato non è tutto male, ma è male considerare il libero mercato come l’unica fonte del benessere sia economico che sociale; e quando si guasta il benessere sociale, pure quello economico inizia a traballare.
Draghi e con lui i suoi seguaci e adulatori, continuano a non considerare una nozione banale e arcinota a tutti gli economisti: in economia vi sono dei cicli e il libero mercato può essere molto utile in una certa fase del ciclo, mentre può essere inutile o addirittura dannoso in altre fasi.
Soprattutto non sembra tenere conto del fatto che chi gestisce la politica economica (i governi) e la politica monetaria (le banche centrali) dovrebbero avere una funzione anticiclica: cioè non esagerare con gli investimenti e con i prestiti quando l’economia ha spazi di crescita ed effettivamente cresce (altrimenti si creano le bolle, che fanno tanti danni e travolgono i piccoli risparmiatori) e invece fare investimenti e fornire più facilmente prestiti quando la crescita economica diventa più difficile (anche per fattori esterni, come una pandemia o una guerra).
Una lezione che Trump sembra aver compreso molto bene (anche se, sinceramente, non ci voleva un genio) per cui opera con molta semplicità per i suoi interessi (quelli americani) senza badare alle ideologie. La difficoltà da parte di tanti economisti di catalogare le scelte di Trump è proprio dovuta al fatto che non opera secondo un’ideologia; di conseguenza essi non hanno uno schema di riferimento col quale giudicare le sue mosse. Non ci arrivano proprio a comprendere che Trump si preoccupa non dell’economia degli altri o del libero mercato internazionale, ma soprattutto di proteggere e possibilmente far crescere l’economia interna e il suo mercato del lavoro.
Anzi, proprio il recente incontro annuale di Jackson Hole sembra dargli ragione. Come avevo già scritto in precedenti articoli di questo giornale, la politica americana dei dazi per avere pienamente successo aveva bisogno di una moneta debole, per poter favorire le esportazioni americane. Ma il presidente della Fed Powell, in evidente contrasto con il governo di Trump, ha ritardato quanto poteva il taglio dei tassi, scatenando le ire dello stesso Trump con velate minacce di licenziamento.
Ora, con una inflazione che non sale e con un mercato del lavoro in discreta salute, mantenere i tassi al 4,5% (mentre quelli della Bce sono al 2,15%) non ha più alcun senso e quindi a settembre si procederà ad un primo taglio, al quale probabilmente a dicembre seguirà un secondo taglio.
Così prendere dollari in prestito sarà meno costoso e con una maggiore quantità di dollari in circolazione il cambio con altre monete subirà un deprezzamento, e questo favorirà le esportazioni americane, mentre le importazioni subiranno una frenata, accentuata dai dazi.
In questo quadro, l’Europa sarebbe destinata ad un declino irreversibile e chi ne dovrebbe soffrire di più è proprio la Germania; non a caso il partito tedesco AfD, anti-europeista e anti-NATO, nei recenti sondaggi è ormai al primo posto. Questo vuol dire che non tutto è perduto e che c’è una certa probabilità che il sogno di Draghi di una Europa maggiormente integrata sia destinato a svanire.
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