A criticare oggi l'Ue in Italia dopo l'accordo con gli Usa sui dazi ci sono anche quanti festeggiarono la cacciata di Berlusconi nel 2011
Fra le voci italiane disgustate per l’accordo Trump-von der Leyen – addirittura indignate ai limiti di un ribellismo anti-europeo inedito per le élites – ve ne sono alcune che invece applaudirono calorosamente l’Italia quando “fece presto” a obbedire ai diktat congiunti di Usa e Ue.
Era il 2011 e l’incitamento da stadio e quindi il plauso unanime – almeno da parte dei grandi media – andarono al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che pilotò ai limiti dei suoi poteri costituzionali la rimozione di un Premier democraticamente eletto come Silvio Berlusconi. E riportò discrezionalmente al governo il suo Pd: che vi è rimasto praticamente fino all’ultimo voto politico, peraltro non avendo mai vinto veramente una sola consultazione.
Nell’estate di quattordici anni fa tutto avvenne sotto il ricatto di un “dazio” euratlantico molto particolare e tutt’altro che minacciato. Era lo spread sul debito pubblico italiano, scatenato dalle pronunce delle agenzie di rating d’Oltre Atlantico, anche in vista dell’operazione militare speciale della Nato contro la Libia, cara alla Francia di Sarkozy come agli Usa di Obama. Tutto fu asseverato dalla firma tecnocratica di Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia appena designato al vertice Bce. Fu lui – con il francese uscente Jean Claude Trichet – a imporre al suo Paese un’austerity pesantissima, politicamente opaca già nell’immediato e giudicata infine sbagliata sul piano tecnico.
Era una cura anomala – nei fatti si rivelò perfino controproducente – per una crisi creata in buona parte artificialmente dall’esterno. Lo stato del debito pubblico italiano non è migliorato da allora (nonostante 11 anni di governi tecnocratici o Pd-centrici), eppure lo spread oggi è attorno a 80, non a 600 come nell’autunno 2011. Nel frattempo, la Germania si è sbarazzata dei vincoli rigoristi sul bilancio e la Francia è sull’orlo di una crisi finanziaria, sebbene a Bruxelles tutti fingano di ignorarlo.
È Parigi – che ha uno spread peggiore di quello spagnolo e solo di una manciata di punti migliore di quello italiano – che dovrebbe far presto a varare la sua “riforma Fornero” alle pensioni: ma sono otto anni che Emmanuel Macron fallisce e rinvia, pur essendo un Presidente eletto dal popolo e dotato di poteri esecutivi. Ieri, forse non per caso, il Governo francese è stato il primo a strillare contro l’accordo Usa-Ue, anche se era visibilissima la frustrazione tutt’altro che economica contro Usa e Germania (gli imprenditori francesi negli ultimi giorni erano tutti apertamente pro-accordo).
Draghi, a ogni buon conto, nel 2011 fece prestissimo a promuovere un “prendere o lasciare” ai danni dell’Italia non troppo diverso da quello messo sul tavolo l’altroieri da Trump. E neppure il Quirinale perse tempo nell’installare a palazzo Chigi l’eurocrate Mario Monti. I mantra erano: qualsiasi alternativa sarebbe peggiore, guai a resistere, l’unica opzione è adeguarsi, “fate presto” era il titolo cubitale del Sole 24 Ore, giornale dell’Azienda-Paese.
Già allora era evidente, tuttavia, che la cacciata di Berlusconi e il commissariamento del Paese erano il vero obiettivo – squisitamente politico, in Italia e fuori – dell’intera operazione: non troppo diversa dalla guerra dei dazi scatenata dalla nuova Casa Bianca: strumentale a un riequilibrio geopolitico prima che geoeconomico.
Come nel 2011 (come nel 1945, come sempre) nelle grandi svolte s’impongono i rapporti di forza: oggi – in parte – a ridimensionare l’intera Ue che allora punì l’Italia (di centrodestra) in un gioco di puro potere. L’unica differenza percepibile è che allora plotoni di politici e commentatori italiani brindarono, oggi (spesso gli stessi) lanciano fatwe contro una Ue presieduta da una tedesca moderata. Finora non lo hanno mai fatto: hanno anzi sempre accusato i critici della Commissione Ue di essere più o meno “nazifascisti” di ritorno.
Ma allora ai piani altissimi di palazzo Berlaymont ad agitare la bacchetta – sotto lo sguardo sempre attento di Washington – c’erano Romano Prodi, Mario Monti ed Emma Bonino. A Francoforte c’era un ex top banker della Goldman Sachs. Oggi di quel mondo “europeista e quindi unico democratico” non c’è più nessuno: né a Bruxelles, né a Strasburgo, né a Parigi, né a Berlino. E neppure a Roma. Come sempre: un fatto, non un giudizio.
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