“Foreign Affairs”, bibbia delle élites, ha attaccato l’eccesso di giurisdizione sovranazionale. Ma la “cura” liberal proposta resta sbagliata -
La Corte di giustizia dell’UE è andata in soccorso politico-corporativo dei magistrati italiani anti-governo sui migranti mentre si scalda il confronto internazionale sul ruolo dei poteri “indipendenti” nelle democrazie occidentali.
Sulla home di Foreign Affairs, bibbia delle tecno-élites globaliste, è appena comparso un intervento inatteso. “Il liberalismo ha condannato l’ordine liberale internazionale” è il titolo di un articolo pubblicato – significativamente – il giorno dopo l’accordo USA-UE sui dazi, che è parso segnare la fine della prima fase della presidenza Trump 2.
E i quattro politologi ospitati – due americani e due tedeschi, tutti di orientamento liberal e non sospettabili di antagonismi ideologici – non hanno dubbi fin dalle prime righe: l”“ordine” affermatosi nell’ultimo quarantennio “sta morendo” e “i suoi sostenitori transatlantici sono ormai rinchiusi nel loro lutto”.
Sbaglia dunque chi si attarda a considerare il trumpismo la causa e non l’effetto di una crisi epocale. Commette – di nuovo – un errore chi lo giudica un male passeggero, una parentesi fastidiosa destinata a chiudersi senza danni eccessivi nel 2028 (o già al voto midterm Usa del novembre 2026).
Appare invece non più rinviabile una riflessione seria sulla crisi di un modello occidentale datato, addirittura di ottant’anni, se si considerano le prime istituzioni internazionali nate all’indomani della seconda guerra mondiale (e non a caso visibilmente invecchiate come l’ONU).
Ma è appunto questo il tema messo subito in discussione da Foreign Affairs: il proliferare incessante e caotico di poteri sovranazionali che ha accompagnato la globalizzazione. Fino però a soffocarla, contraddicendone il verbo fondamentalmente liberale.
“I burocrati internazionali sono arrivati a decidere questioni grandi e piccole, dai crimini contro l’umanità agli standard di sicurezza sulle navi da crociera. Fra il 1990 e il 2020 (…) la schiera globale delle organizzazioni internazionali (comprese le non-governative) si è gonfiata da 6mila a 72mila”.
Una bolla che comprende la Corte penale internazionale (CPI) che bracca il premier israeliano Netanyahu, piuttosto che qualche oscura ONG che rivendica una sua presunta o autonominata “sovranità” contro quella di uno Stato, si tratti di migranti o di transizione verde.
Una congerie di “authority” che lancia accuse, emette sentenze, irroga pene e sanzioni: sulla base di “Convenzioni o Carte di X o Y”, fatte valere con pretesa di forza legale prevalente sulle leggi varate dagli Stati attraverso organismi sovrani legittimati dal voto democratico.
È stato così così che, in nome dell’affermazione di un “ordine liberale”, la società occidentale, liberale per definizione e origine, si è caricata di una sovrastruttura di regole, affidandone l’applicazione e il rispetto a sovrastrutture “terze”, con il mantra di tenere a distanza il potere politico (quindi, appena possibile, di “correggerlo” e contraddirlo).
Ma l’esito finale è stato l’avanzare inarrestabile – e sostanzialmente antipolitico – dell’ideologia tecnocratica, basata su un “universalismo” che alla fine si è rivelato nemico del “pluralismo” democratico e invece fondamento di un nuovo autoritarismo. Ha preso quindi forma il paradosso invasivo di tutte le “magistrature” che vorrebbero prevenire gli antagonismi populisti e illiberali e invece li alimentano e li legittimano.
“Un nuovo ordine internazionale multilaterale, cooperativo e durevole può essere ricostruito dalle ceneri”, conclude l’articolo di Stacie Goddard, Ronald Krebs, Christian Kreuder-Sonnen e Berthold Rittberger. “Ma questo avverrà se i leader mondiali resteranno ancorati a un legalismo tecnocratico e al linguaggio dei valori pubblici universali”.
È probabile che di questo si discuterà alle prossime adunate di Davos. Naturalmente se il World Economic Forum – ancore reduce dallo scioccante videocollegamento con Trump lo scorso inverno – saprà sopravvivere a se stesso.
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