Potrebbe apparire stravagante la sortita ("Draghi premier") degli industriali francesi. Una trovata che nasconde la prossima "scommessa" di Macron
Il Medef, centrale degli industriali francesi, invoca apertamente “un Mario Draghi” premier a Parigi come sbocco per la crisi del governo Bayrou. L’eco del discorso di Rimini dell’ex presidente della Bce è giunto evidentemente anche al di là delle Alpi (forse addirittura con più impatto che in Italia). Però i patron d’Oltralpe sembrano incorrere in un lapsus politico-finanziario non del tutto banale. Sia sulla Francia che sull’Italia.
Quando Roma si trovò “sull’orlo del baratro” (citazione odierna da Le Figaro riguardo il debito pubblico francese) non fu Draghi a sbrogliare la matassa. Fu Mario Monti: non un ex banchiere centrale ma un ex commissario Ue. Draghi – presidente designato della Bce – si limitò a co-firmare l’austerity imposta all’Italia, assieme al presidente uscente Jean-Claude Trichet, francese come Christine Lagarde oggi al vertice dell’Eurotower.
Fu Monti a varare – come regalo di Natale 2011 agli italiani – un decreto “salva-Italia” imperniato sulla riforma delle pensioni, grondante delle lacrime del ministro Elsa Fornero per decine di migliaia di esodati. È la stessa riforma che il presidente francese Emmanuel Macron – in carica dal 2017 – tenta invano da anni di imporre al suo Paese, ma l’unico risultato è stato quello di bruciare cinque premier, di riempire a cadenza fissa le piazze dei sindacati in collera (vi torneranno anche il 10 settembre), di gonfiare il debito e dover varare una manovra da 45 miliardi.
Ora anche Bayrou ha deciso di riconsegnare una patata più marcia che bollente nelle mani del suo presidente. Per ora senza che lo spread francese decolli come quello italiano 14 anni fa, anche se i due si sono nel frattempo allineati. E – per ora – nel silenzio sempre più imbarazzante della Ue, invece sempre zelantissima contro i conti italiani.
Il rettore della Bocconi – forte di due mandati a Bruxelles, il secondo al potente Antitrust – venne installato a Palazzo Chigi nel 2011 da un presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, che – pur privo dei poteri costituzionali dell’Eliseo – forzò il suo ruolo in senso semipresidenzialista, rivestendo in corsa del laticlavio a vita il “commissario” voluto a Roma dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Con il favore della Casa Bianca “dem” di Obama.
Sostenuto da questo imponente schieramento istituzionale e internazionale, il senatore Monti (“eletto” da un unico italiano, il presidente della Repubblica) riuscì a “sequestrare” per 18 mesi il Parlamento nazionale.
Non gli riuscì invece di catturare l’elettorato, quando – da premier tecnoeuropeo e da senatore a vita – si candidò trasformisticamente a premier al voto politico del 2013. Il risultato fu la “vittoria mutilata” del Pd e l’ascesa impetuosa del populismo grillino.
Draghi premier (quello che gli industriali francesi vorrebbero oggi a Matignon) è stato l’interprete ultimo di quella stagione di “para-democratura” italiana, caratterizzata dall’egemonia di un Quirinale semipresidenzialista di fatto, occupato da quasi un ventennio dall’esponente di un Pd sempre perdente nelle urne.
L’ex presidente della Bce (che Sergio Mattarella chiamò nel 2021 a Palazzo Chigi ma in dieci anni non ha mai pensato di nominare senatore a vita) non dovette comunque fronteggiare un’emergenza finanziaria. Ciò che preoccupava la Ue di Ursula von der Leyen 1 (con Macron 1 ancora forte a Parigi) era come l’Italia del Giuseppe Conte 2 (M5s-Pd, dopo il ribaltone anti-Lega del 2019) avrebbe speso i soldi del Pnrr, raccolti con i primi “eurobond”.
Mentre in Italia Monti ha – garbatamente – ripreso il Draghi “rottamatore” della Ue di Maastricht, a Parigi sembrano dimenticare che Macron ha già bruciato il suo Monti: Michel Barnier, commissario Ue autorevole come l’economista italiano (entrambi hanno gestito la stessa delega pesante al Mercato interno) al punto da essere stato infine il capo-negoziatore dell’Unione con Londra sul dossier Brexit.
A quel tavolo, Barnier – un europeista liberale, come Monti e Draghi – l’ha spuntata. Con l’Assemblea Nazionale francese – dopo il caos elettorale provocato da Macron un anno fa – non è durato più di cento giorni. E ha pensato bene di levare subito il disturbo per non compromettere le sue chance presidenziali per il dopo-Macron: fra 18 mesi, o forse anche prima.
Bayrou sta facendo lo stesso: sta utilizzando la crisi del suo governo (pure fallito in partenza, ma utile a Macron per guadagnare tempo) come opportunità unica per una personale campagna per l’Eliseo.
La degenerazione del semipresidenzialismo francese appare completa. E ora anche una testata tecno-elitaria e globalista come Politico è obbligata ad aprire sulla “crisi di regime” a Parigi, pur continuando a rilanciare la frenesia geopolitica del volenteroso Macron, più surreale che macchiettistica, più dannosa che irrilevante.
Di tutto è ora probabile si parli – a porte semi-chiuse – al tradizionale seminario di Cernobbio, il prossimo fine settimana (alla vigilia del voto-verità a Parigi).
Il forum Ambrosetti è un santuario satellite di Davos nel distillare gli umori delle élite internazionali, fra mercati e tecnocrazie. Il milanese Monti vi è storico padrone di casa (il romano Draghi è ospite frequente e ascoltato, ma non è stella fissa).
Vedremo se sulla rive del lago si farà vedere Trichet, habitué soprattutto da quando è “reserve de la Republique” a Parigi. Nei giorni scorsi si è fatto intervistare dal Corriere della Sera in lode di Draghi a Rimini. Forse non disdegnerebbe un ultimo hurrà a Parigi come premier tecnico, per puntellare Macron non meno che per salvare la Francia.
Ma non è affatto detto che il presidente opti per quella che sarebbe comunque un’abdicazione poco onorevole. È invece possibile che trovi più attraente un’ultima scommessa – ad alto rischio – sulle elezioni parlamentari anticipate.
Che è comunque quello che chiedono a gran voce numerose forze politiche (e non solo alle estreme Rassemblement National e La France Insoumise). È ciò che risolve le crisi politiche nelle democrazie occidentali degne del titolo.
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