Continuano a essere poco chiari i contenuti dell'accordo tra Usa e Ue sui dazi. Intanto l'euro si svaluta contro il dollaro

L’accordo commerciale tra Stati Uniti e Europa ieri ha preso i contorni di un giallo. Lunedì sera sul sito della Casa Bianca è apparsa una nota in cui si chiarivano i punti principali dell’accordo; la nota specificava anche alcuni numeri tra cui spiccava la somma che l’Europa si è impegnata a pagare all’America per le forniture energetiche. All’annuncio di domenica sera, meno di dieci minuti, non era seguito alcun documento. Per quasi 24 ore l’unica fonte scritta sull’accordo è stata quella offerta dalla Casa Bianca.



Ieri pomeriggio la Commissione europea ha cercato di recuperare pubblicando una propria versione che differisce da quella americana in più di un punto. La versione americana menziona alcuni impegni specifici sulle barriere commerciali digitali assenti in quella europea. Si riscontrano differenze sul trattamento che verrebbe riservato ai chip e ai prodotti farmaceutici. La versione europea è molto più sfumata di quella americana sugli impegni che sarebbero stati presi per contrastare politiche anti-competitive di “terze parti” che sono un chiaro riferimento alla Cina.



In questi giorni alcuni Paesi europei, Francia in primis, lavorano per escludere dal pagamento dei dazi alcune categorie di prodotti tra cui, nel caso francese, i liquori. Ogni membro dell’eurozona cerca di ritagliarsi uno spazio di autonomia per salvare le proprie esportazioni. Più passano i giorni, più l’accordo appare un piano di lavoro in via di definizione con alcune certezze.

Ieri uno dei principali attori globali nei servizi all’industria petrolifera, Baker Hughes, ha comunicato il lancio di un’offerta da 13,6 miliardi di dollari per una società specializzata in liquefazione e trasporto gas. Difficile ipotizzare che si tratti di una coincidenza a meno di 48 ore da un accordo in cui l’Europa si impegna a triplicare le importazioni di energia americana.



Anche ieri l’euro si è indebolito contro il dollaro confermando una delle reazioni più evidenti a valle dell’annuncio. Gli investitori vendono euro perché convinti che quanto annunciato domenica sera comprometta le prospettive di crescita dell’Europa. Lunedì alcuni politici europei, anche italiani, hanno espresso l’auspicio che si cominci a “lavorare sul cambio”. Si tratta di un invito, se non un’invasione di campo, alla Banca centrale europea che con le sue decisioni può influenzare il tasso di cambio. Se l’euro si svalutasse il conto dei dazi si ridurrebbe in una riproposizione delle “svalutazioni competitive” italiane che la moneta unica avrebbe dovuto far finire.

L’euro intanto scende e la prosecuzione di questo “successo” riporta l’attenzione sulla Fed. Trump e la sua Amministrazione non hanno difficoltà a comprendere che indebolire l’euro è un modo per controbilanciare i dazi. Più l’euro scende contro il dollaro, più aumenteranno le pressioni della Casa Bianca sulla Banca centrale americana per convincere il Presidente ad adottare una politica monetaria espansiva.

Per inciso è questo lo scenario in cui la Banca centrale europea e l’Europa dibattono sullo spazio da lasciare agli “stable coin” e alle valute digitali la cui diffusione “potrebbe limitare l’efficacia della politica monetaria”. Se la moneta diventa uno strumento della guerra commerciale è comprensibile che famiglie e investitori cerchino alternative e vie di fuga.

Oggi la Fed, questo è quello che si attendono gli investitori, non taglierà i tassi. È inevitabile chiedersi come reagirà Trump che ha appena annunciato un accordo commerciale “punitivo” nei confronti dell’Europa che potrebbe essere disinnescato proprio da una svalutazione dell’euro. L’annuncio di domenica sera, che avrebbe sventato il rischio di una guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti, più che la fine di un processo segna quindi l’inizio di una lunga fase di riassestamento dei rapporti tra Washington e Bruxelles e tra Bruxelles e i Paesi membri.

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