Occorre guardare con cura a quello che è successo in settimana nelle aste di titoli di stato giapponesi a 10 e 30 anni
Come sono andate le due aste di titoli di Stato giapponesi di questa settimana? Se la logica cui dobbiamo fare riferimento è quella machiavellica del risultato a tutti i costi, dei pochi maledetti e subito, allora missione compiuta.
In realtà, la sensazione è quella di una clessidra con sempre meno sabbia al suo interno. E in procinto di scendere in maniera sempre più vorticosa. Insomma, attenzione a dare per vinta la battaglia agostana.
Partiamo dall’asta tenutasi ieri, quella del titolo a 30 anni. In primis, mettendo l’intera questione in prospettiva. Prima di proporre al mercato il suo debito, la Bank of Japan si era premurata di intervenire 13 volte negli ultimi 6 giorni di negoziazione per fornire collaterale in dollari alle banche del Paese. Come dire, la solita partita di giro, il backdoor funding che da trimestri vede operativa nella stessa maniera anche la Bank of England con la sua facility di Short Term Repo del giovedì. Un successone, quindi?
Non troppo. A partire dalla domanda, scesa al 3,43 dal 3,58 dell’asta precedente, tenutasi soltanto il 2 luglio scorso. Insomma, nonostante il rendimento più che appetibile e, appunto, una settimana di finanziamento a cascata della Banca centrale, entusiasmo raffreddato. E non poco. E il rendimento, appunto? Il 3,089% contro il 2,808% del 2 luglio. Sopra la linea Maginot del 3%. Un argine psicologico per il titolo a 30 anni. E infatti, la domanda ha patito.
E l’asta di decennale tenutasi martedì? Collocato tutto il dovuto. Ma con un rendimento del 1,462% contro l’1,442% del 30 giugno. In aumento. Certo, in questo caso molto lontano dall’1,512% del 2 giugno. E comunque sotto la soglia psicologica dell’1,5%, l’aglio per il Conte Dracula per chi investe in carta nipponica benchmark.
Sta tutto qui il grande appuntamento spartiacque con cui vi ho annoiato per almeno due settimane? Solo una logica bipolare fra bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto? No. Prendiamo la domanda del decennale. La quale, a differenza di quella del titolo a 30 anni che pare solo suggerire il pericoloso sconfinamento in area risk-off, tradisce già oggi i profili dell’accanimento terapeutico. Perché 3,06 di bid-to-cover ratio contro il 3,51 del precedente collocamento e il 3,17 della media a 12 mesi deve far pensare. Non per il numero in sé. Bensì per la condizioni in cui si è tenuta l’asta. La manipolazione perfetta da parte della Bank of Japan, come appunto spiegato prima. Ma sempre più disperata.
E il fatto che sia stata Bloomberg e non un noto complottista come il sottoscritto a far notare con tanto di grafico il fatto che a spingere sotto la quota psicologica dell’1,5% il rendimento del decennale giapponese subito prima dell’asta di martedì sia stato il dato occupazionale Usa, fa riflettere. O, almeno, dovrebbe.
Non fosse altro per il caravanserraglio che quel numero delle non-farm payrolls ha generato, addirittura con il licenziamento via X della responsabile del Bureau of Labor Statistics da parte di Donald Trump. Pensate che potrà accadere ancora molto spesso che un ritualissimo dato sui posti di lavoro si trasformi in market mover su questi livelli politico-mediatici?
In compenso, date un’occhiata a quest’altro grafico: ci mostra come proprio quel dato sull’occupazione Usa abbia compiuto un doppio miracolo, sia a livello interno, sia per l’alleato giapponese. A oggi, un taglio dei tassi da parte della Fed a metà settembre è dato al 95%.
Et voilà, il rendimento nipponico prima delle due aste ha incorporato, oltre al collaterale della Boj, anche il pivot dei futures Usa. Nel caso del decennale, questo ha garantito che subito prima dell’asta, lo yield sia sceso sotto la Maginot dell’1,5%. Ma per il titolo a 30 anni, no. Quello è rimasto sopra il 3%. Sia prima, sia subito dopo il collocamento. Sintomo che il mercato sa quale sia l’effetto bomba a orologeria che il debito a lungo termine ha già oggi sui bilanci bancari e delle società assicurative nipponici.
E infatti, in ossequio ai riti di quell’ormai delirante mondo di Fantasilandia che qualcuno ancora si ostina a chiamare mercato, il giorno precedente all’asta a 10 anni, i titoli bancari giapponesi sotto tutti letteralmente precipitati al minimo da 16 mesi. Tutti. La ragione? Il Ceo di Norinchukin, la banca cooperativa di pescatori e contadini, ventilava nel corso di un’intervista con il Financial Times un approccio all’investimento futuro più cautelativo, dopo l’ammissione di perdite per 12 miliardi di dollari su detenzioni di Treasuries Usa.
Ma non basta. Perché contestualmente all’asta di decennale, martedì mattina sono state rese note le minute della riunione della Bank of Japan della scorsa settimana. Proprio quella che ha mantenuto i tassi invariati, pur alzando dal 2,2% al 2,7% le previsioni inflazionistiche per quest’anno. E a fronte di questo trend relativo alle paghe nominali nel mese di giugno, nettamente in accelerazione, quindi chiaramente destinato a incidere sulle dinamiche dei prezzi (o il rischio della mitica spirale esiste solo quando fa comodo?).
E cos’è emerso? Che proprio le dinamiche dei prezzi imporrebbero un ingestibile rialzo dei tassi. Ma solo dopo che si sarà calmata la tensione legata alla questione dazi e tariffe. Guarda caso, Donald Trump ieri ha deciso un aumento di un altro 15% delle tariffe da applicare all’export giapponese, nonostante il tanto strombazzato accordo commerciale con Tokyo. Della serie, se occorre caos per rimandare un rialzo dei tassi che né lo yen, né il Nikkei possono sostenere, l’amico americano giunge in aiuto con la minaccia di un terremoto macro. Tanto, si sa, alla fine tutto verrà rimandato. O addirittura rimangiato.
La manipolazione perfetta. Ma talmente complessa e disperata nei suoi modi ormai sfacciati da confermare l’accanimento terapeutico. Per il Giappone non è questione di se. Ma solo di quando.
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