Vedendo quel che accade intorno alla Fed, un nuovo mondo di parametri per l'obbligazionario pare già in costruzione
Quanto sta accadendo dentro la Fed, come va interpretato? Formalmente, Donald Trump sta operando a carte scoperte. Il licenziamento di Lisa Cook dal board, infatti, è stato rivendicato nella serata di martedì con dichiarazioni che hanno lasciato veramente poco margine di interpretazione: Tra poco potremo contare sulla maggioranza in seno alla Fed. Sottintendendo che questo sia prodromico all’unico atto che in questo momento conta per l’Amministrazione Usa: tagliare i tassi di interesse con il machete.
Perché per chi si fosse scordato, il Presidente statunitense non più tardi di tre settimane fa aveva esplicitamente fissato il suo target: 300 punti base di taglio dal livello attuale di costo del denaro, al fine di raggiungere quello che viene valutato il sostegno necessario per un nuovo boom economico.
Tutto qui, quindi? Tutto esplicito, ancorché senza precedenti nella storia della Banca centrale statunitense? In effetti, questo grafico parla chiaramente: Lisa Cook con il suo mandato fino al 2038 e la sua chiara matrice politica bideniana rappresenta l’ultimo ostacolo prima del cambio di equilibrio interno al Fomc.
Ma attenzione a farla semplice. Quanto sta accadendo è strettamente connesso all’analisi che ho compiuto nel mio ultimo articolo dedicato alle prospettive del mercato azionario. E, soprattutto, proprio al quadro di incertezza delineato dal discorso di Jerome Powell a Jackson Hole. La cartina di tornasole?
Il mercato obbligazionario. Il quale, di fatto, vede la stragrande maggioranza delle Banche centrali globali operative ormai da trimestri su politiche di aggressivo e continuo taglio dei tassi, nonostante un pressoché generalizzato e persistente aumento dei rendimenti a lungo termine. Addirittura, l’ultima settimana ha visto i bond a 10, 20 e 30 anni di Regno Unito e Giappone sfondare record che resistevano dagli anni Novanta, ancorché in contemporanea con altrettanti primati al rialzo degli indici benchmark di riferimento come Ftse 100 e Nikkei 225.
Restando nel cortile di casa, il sorpasso tra Btp e Oat francesi sembra ormai questione di giorni, in attesa della mozione di sfiducia al Governo transalpino calendarizzata per l’8 settembre. Dall’Australia, poi, è giunta proprio ieri mattina l’ultima conferma: a fronte di una convinta politica di taglio dei tassi, il dato Cpi di luglio ha segnato un aumento su base annua del 2,8% contro un precedente dell’1,90% e attese degli analisti per un 2,30%. Insomma, se la data-dependency ha un valore, i prezzi stanno gridando al policy error monetario da parte di Canberra. E su scala pressoché globale.
Siamo di fronte a un nuovo paradigma? Di certo non stupirebbe. Quantomeno nei riguardi del Giappone, ad esempio. Il problema però si pone quando entra in gioco il livello crescente di stock di debito con cui i Governi occidentali devono fare i conti. Apparentemente non solo sempre meno gestibile per via ordinaria, ma, appunto, anche ormai insensibile al più classico degli strumenti di politica monetaria in fatto di necessità di convivenza con deficit fiscali di dimensioni ragguardevoli.
Non a caso, uno degli argomenti cardine dell’intervento di Mario Draghi al Meeting, a cui l’ex Governatore Bce e Premier italiano offre come risposta la necessità di emissioni di debito comune a livello sistemico e strutturale e non più emergenziale. E limitate nel tempo su obiettivi ad hoc. Insomma, i premi di rischio relativi – ad esempio – a emissioni sovrane sembrano giocare una partita a parte rispetto al quadro di riferimento monetario. Mentre gli spread sia investment grade che high-yield del ramo corporate stanno vivendo tempi di contrazione da record, quasi la Fomo azionaria stesse cancellando nel loro caso la percezione di rischio.
In tal senso e per capire con quali occhi Wall Street guardi già oggi a quanto sta accadendo, ecco che questo grafico tratto dall’ultimo sondaggio mensile di Bank of America fra i gestori di fondi sembra spalancare una realtà parallela rispetto alla narrativa rassicurante. Quella sottesa dal quasi disinteresse generale rispetto, ad esempio, a un Gilt a 30 anni al 5,61% (massimo dal 1998) o a un bond giapponese sempre a 30 anni al 3,213%, come accaduto venerdì scorso in chiusura di negoziazioni e sotto la pressione di Jackson Hole.
Non a caso, il ministero delle Finanze nipponico non più tardi sempre di venerdì scorso ha fissato il tasso previsionale per il pagamento di interessi sul debito governativo al 2,6% per il prossimo anno fiscale, il massimo da 17 anni a questa parte.
Ebbene, quel grafico mostra come per il 54% dei manager interpellati, il prossimo Governatore della Fed (salvo licenziamenti anticipati via X da parte della Casa Bianca, il mandato di Jerome Powell scade nel maggio 2026) farà affidamento come strumento di politica monetaria per la gestione del crescente moloch di debito (recentemente salito sopra quota 37 trilioni di dollari) al ritorno del Qe o addirittura a una politica di Yield Curve Control (l’acronimo YCC, appunto), il controllo sulla curva dei rendimenti che prevede – in perfetto stile giapponese – una banda di oscillazione con cap per gli yields dell’obbligazionario sovrano.
Raggiunto il quale, la Banca centrale interviene più o meno direttamente sul mercato per calmierare. Un epilogo che Wall Street, come dimostra l’attuale trend, potrebbe gradire. Ma, chiaramente, solo nel breve. E poi? Ma, soprattutto, un eventuale, simile sviluppo di politica monetaria si configurerebbe chiaramente come Cpi inflationary.
Addio del tutto alla data-dependency, con buona pace del dato australiano e del suo bagno di realismo quasi sicuramente destinato a rimanere inascoltato, quindi? Addio vigilanza sulla stabilità dei prezzi? Addio, soprattutto, target del 2%? Non a caso, nel suo discorso a Jackson Hole, Jerome Powell ha citato il nuovo framework operativo che supera il riferimento proprio al target inflazionistico, citando il tasso di disoccupazione e le sue oscillazioni dai livelli massimi come nuovo criterio incorporato.
Insomma, un nuovo mondo di parametri per l’obbligazionario pare già in costruzione. Ma nessuno sembra voler affrontare l’argomento. I conti pubblici e i loro artificialmente soppressi premi di rischio per quanto ancora saranno d’accordo? Questo grafico relativo al titolo a 100 anni austriaco emesso nel 2020 a meno dell’1% di rendimento parla chiaro: oggi è al 3,4% e ha perso il 90% di valore. Non a caso, sempre venerdì scorso Moody’s ha tagliato il rating creditizio di Vienna a negativo.
Attenzione a certe increspature nello stagno. Possono diventare tsunami.
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