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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Fed & Dollaro » SPY FINANZA/ Il ritorno al 2007 che può mandare in “fuorigioco monetario” l’Europa

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SPY FINANZA/ Il ritorno al 2007 che può mandare in “fuorigioco monetario” l’Europa

Mauro Bottarelli
Pubblicato 21 Settembre 2022
Powell, Fed

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve (LaPresse)

Oggi è attesa la decisione della Fed sui tassi di interesse. Una scelta che può avere ripercussioni importanti soprattutto per l'Europa

Cosa comunicherà la Fed questa sera ai mercati? Il rallentamento dell’inflazione di agosto, scesa dall’8,5% all’8,3% ma comunque oltre le attese degli analisti dell’8,1% su base annua, sarà stato sufficiente a gettare acqua sul fuoco rialzista che anima da mesi Jerome Powell? Oppure si procederà come temono le prezzature di mercato, ovvero altri 75 punti base che porteranno il benchmark al 3,25%? E che, se seguiti da medesima mossa al Fomc dell’1-2 novembre (a ottobre non è prevista riunione del board), potrebbero portarci al meeting di fine anno (13-14 dicembre) con un potenziale di 200 punti base di rialzo in un trimestre e tasso di riferimento fra il 4,25% e il 4,50%.


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Paradossalmente, il focus non deve essere posto sull’andamento dei prezzi. Bensì su questo: il tasso benchmark sui mutui immobiliari negli Usa – quello trentennale – ha appena toccato quota 6,42%, un aumento esponenziale e rapidissimo totalmente figlio della decisione della Banca centrale di mettere il turbo nel (tardivo) contrasto a quell’inflazione che si è scoperto non essere poi tanto transitoria.


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Tradotto, se stasera la Fed dovesse alzare anche soltanto di 50 punti base, Wall Street probabilmente festeggerebbe lo scampato pericolo, ma il mercato immobiliare Usa, ovvero il canarino nella miniera di ogni recessione a stelle strisce, rischia di esplodere. Nulla che sconvolga, stante la ciclicità di questo avvenimento. E il carattere a dir poco esuberante del real estate americano. Ma attenzione ad alcune dinamiche sottotraccia. Ad esempio, queste: con le vendite di nuove case crollate, ecco che da un lato la disponibilità di immobili sul mercato sta rapidamente approcciando i livelli record della bolla subprime del 2008 (eccesso di offerta), mentre dall’altro il costo del pagamento medio per un mutuo è salito dai circa 1.700 dollari di inizio anno agli attuali 2.306 dollari, un aumento del 38,5% (mancanza di domanda).


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+

Ingestibile. Perché la fine dei sussidi pandemici a pioggia che avevano garantito un doping strutturale dei redditi non è stata compensata da aumenti salariali in grado di generare un off-setting in equilibrio. Insomma, lo spillo sta avvicinandosi in maniera sempre più pericolosa al palloncino. Il quale, gonfio com’è, rischia di esplodere al minimo contatto. E potenziali altri 75 punti base equivalgono a un placcaggio da Super Bowl, non certo a un buffetto. Ma anche 50, stante quel dato sul tasso benchmark trentennale.

Direte voi, a differenza del 2007-2008 non siamo però nel pieno di una finanziarizzazione folle di quella mania immobiliare. Tradotto, nessuna ha cartolarizzato col badile i mutui per cautelarsi da insolvenze di massa, quindi la dinamica che si rischia è quella di un salutare e schumpeteriano (ancorché traumatico nel breve periodo) crollo dei prezzi del real estate, ma non una devastazione dei bilanci di banche e fondi che inneschino margin calls sulla catena di controparte. Vero. Ma attenzione a questo, perché Bank of America ha deciso che era giunto il tempo di rompere gli indugi e innescare proprio il déjà vu di quel periodo oscuro dell’economia e della finanza. Ma anche di infrangere platealmente un tabù ipocrita che sembrava divenuto il baluardo della società americana post-Trump.

In un mondo talmente fluido da ritenere lesivo delle diversità qualsiasi riferimento specifico a differenze, ecco che il gigante del credito decide scientemente di dar vita a una discriminazione della popolazione bianca. E lanciare una campagna a favore di neri e latini. I quali – se residenti nelle aree di Los Angeles, Charlotte, Dallas, Detroit e Miami e se acquirenti di immobili per la prima volta potranno godere del cosiddetto zero down payment, ovvero un mutuo finanziato al 100% del valore dell’immobile e senza costi di chiusura.

Perché la questione conta, al di là del silenzio tombale di chi – se non ci fosse stato di mezzo l’ennesimo mezzuccio per uscire indenni dal grande casinò del real estate – avrebbe gridato alla discriminazione, scomodando il Consiglio di sicurezza dell’Onu? Perché quanto deciso rimanda l’eco sinistro della mossa politica con cui l’Amministrazione Clinton creò i prodromi della crisi subprime. Ovvero, in nome di un’applicazione parossistica e ideologica del principio di affordable-housing per facilitare l’accesso alla proprietà delle minoranze etniche, le banche vennero obbligate a offrire percentuali di mutui agevolati sempre crescenti a fasce di cittadinanza con rating di affidabilità creditizia bassissimi. La quota passò dal 40% del 1996 al 42% del 1997 fino al 50% ordinato come baseline dal Department of Housing and Urban Development nel 2000.

E le banche, onde evitare di incorrere nella perdita di filiali e punti di prelievo bancomat come conseguenza della non osservanza dei criteri prevista da quella lettura forzata del Community Reinvestment Act del 1977, cosa fecero? Cominciarono appunto a cartolarizzare quei mutui a rischio con il badile. E per renderli appetibili al mercato e inodore ai fiutatori di rischio da rendimento eccessivo non fecero altro che mischiare tranche a rischio con altre di rating superiore. Come la frutta di certi ortolani scorretti: bellissima e fresca quella sopra al cesto e visibile a tutti, marcia quella sotto. E di cui ci si accorge solo una volta arrivati a casa. Bentornati nel 2007. E con tanti saluti al politicamente corretto.

Insomma, attenzione a cosa deciderà stasera la Fed. Perché a nessuno sfugge come l’innesco di una crisi immobiliare sia il prodromo perfetto a un principio di recessione ufficiale, esattamente ciò che servirebbe a Jerome Powell per salvare la faccia e fermare il processo di normalizzazione dei tassi prima di generare effetti collaterali sull’unico asset che conta davvero: Wall Street. E con il GDPNow della Fed di Atlanta in dirittura di arrivo verso una lettura in negativo per il Pil del terzo trimestre, ecco che questo ultimo grafico ci mostra come a luglio il tracciatore della crescita globale di Bloomberg abbia segnato zero.

Ovvero, già due mesi fa, il mondo era fermo. Di fatto, alzare ancora i tassi equivale a spararsi sui piedi. Ma la Fed ha cominciato per tempo e spinto sull’acceleratore, mentre la Bce ha messo solo ora il primo mattone. Se esploderà il mercato immobiliare e Powell otterrà così il suo alibi perfetto per fermarsi, chi finirà chiaramente in fuorigioco monetario e nel pieno di una mortale rates trap con la recessione alle porte, come certificato lunedì dalla Bundesbank? Esatto, proprio l’Europa. Qualcuno avvisi Mario Draghi, visto che lui non vede recessione alle porte.

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Tags: InflazioneMario DraghiRecessione

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