Ultimo appuntamento della settimana e, come d’abitudine, cercherò di essere molto breve, la classica versione “spillo” per evitare di sovra-caricare il vostro weekend di eccessive criticità. Come avrete notato, da qualche tempo non vi parlo più delle aste repo e term della Fed, ovvero del bancomat per banche e fondi che quotidianamente garantisce liquidità a un sistema che, a detta di tutti, è sanissimo e sfonda un record al giorno. Era nato lo scorso 17 settembre come risposta alla crisi sul mercato repo overnight, quando i tassi che i soggetti finanziarie chiedevano per prestarsi denaro fra loro sulla scadenza di un giorno erano saliti fino al 10%, roba da pre-Lehman: la Fed, fino ad allora totalmente assente da operatività diretta sul mercato da 10 anni, fu giocoforza costretta a tornare in campo. Ovviamente, millantando il carattere di emergenzialità e temporaneità della mossa, a suo dire legata solo alle scadenze di fine terzo trimestre.
In realtà, tutti sapevano che quel supporto sarebbe durato molto di più, perché il mercato era totalmente a secco di collaterale un’altra volta. E infatti, di rinvio in rinvio, eccoci con le aste repo e term che dureranno fino a tutto il mese di aprile, almeno stando all’ultimo comunicato ufficiale della stessa Federal Reserve. Ve lo dico già: trattasi di ennesima balla, perché se davvero vuoi chiudere o diminuire drasticamente, lo fai avendo coperto le scadenze statutarie. Quindi, o chiudi a inizio aprile – avendo così garantito liquidità verso gli oneri di servizio del primo trimestre – oppure chiudi a fine giugno, fornendo il cash necessario a quelli del secondo trimestre e garantendo al mercato un’estate tranquilla, visti i bassi volumi del periodo vacanziero che invitano a nozze speculatori e crisi di sistema. Ma alle balle ormai siamo abituati, guardate i continui cambi nel criterio di contabilità dei nuovi contagiati da coronavirus da parte delle autorità sanitarie cinesi…
Bene, a che punto siamo con quelle aste? Ce lo mostra questo grafico, dal quale si evince che le ultime quattro operazioni di finanziamento term – quelle con scadenze più lunghe di un giorno per la maturazione del prestito – sono andate tutte in pesante sovra-iscrizione fra domanda e offerta. Addirittura, l’ultima – tenutasi non più tardi di giovedì 13 febbraio – ha visto richiesta di liquidità per 59,020 miliardi di dollari a fronte di 30 miliardi di disponibilità. Praticamente, il doppio.
E infatti si è tratta della ratio più alta di sempre, ovvero dall’introduzione stessa del nuovo veicolo di finanziamento lo scorso settembre. Ma non basta. Lo stesso giorno, infatti, la Fed ha iniettato nel sistema altri 48,85 miliardi di liquidità attraverso l’asta repo, quella con maturazione a un giorno. Insomma, cari lettori, giovedì 13 febbraio la Banca centrale Usa ha garantito al mercato – lo stesso che ogni giorno sfonda un record – qualcosa come 79 miliardi di dollari di liquidità. Così, meramente per coprire le esigenze quotidiane di operatività. Ecco a voi il sanissimo sistema finanziario che ogni sera vede i telegiornali aggiornarci sulle magnifiche sorti e progressive del mondo e che procurerà una lesione al tunnel carpale a Donald Trump, a furia di twittare. Vi pare infatti normale, accettabile e soprattutto sostenibile un mercato che necessita quotidianamente almeno di 50-60 miliardi della Banca centrale per non grippare? A me, no.
E attenzione, perché sempre giovedì la Fed – in ossequio a quel residuo di credibilità che pensa ancora di avere – ha dato corso a quanto annunciato al termine dell’ultimo Fomc, ovvero cominciare un ulteriore dimagrimento del controvalore di quelle aste. Della serie, le ho allungate ma sono un po’ meno ricche. Bella consolazione, a fronte di una continua sovra-iscrizione che parla chiaramente rispetto alle esigenze e ai diktat di banche e fondi. Come mostra la tabella ufficiale, dopo il calo dai precedenti 35 miliardi agli attuali 30 miliardi per ogni asta term attuato a inizio febbraio, la Fed dalla prossima settimana scenderà a 25 miliardi di liquidità massima e da marzo addirittura a 20 miliardi. Stesso discorso per le aste repo a un giorno, il cui controvalore massimo da marzo passerà dagli attuali 120 miliardi a “solo” 100 miliardi per operazione. Insomma, andando in sovra-iscrizione per entrambe (ovvero, costringendo la Fed a iniettare il massimo disponibile), il mercato dovrà accontentarsi al massimo di 130 miliardi al giorno, quando i veicoli term e repo vedranno aste in contemporanea.
E come si fa a fare trading in queste condizioni, santa pazienza?!? C’è poco da ridire, perché chiaramente la mossa della Federal Reserve non si limita a presentarsi come il patetico paravento della realtà, bensì assume l’ennesimo contorno da stress test: cosa dite, le sovra-iscrizioni cesseranno di colpo e il sistema di adeguerà al nuovo regime? O, magari, arriverà un altro grande spavento, come lo scorso settembre, tale da giustificare agli occhi delle opinioni pubbliche ancora un po’ di stimolo “emergenziale” in grande stile? Eppure, nelle ultime settimane non si sono palesate necessità di extra-liquidità per scadenze statutarie (cui, tra l’altro, un soggetto formalmente di libero mercato dovrebbe saper e poter far fronte con mezzi propri e non del contribuente), tipo appuntamenti con il fisco o chiusure trimestrali di contratti in essere. Come mai allora questa nuova necessità di liquidità? Forse la crisi cinese da coronavirus? O, forse, si sta usando quella liquidità formalmente di emergenza per altro? Ad esempio, acquistare le azioni di Tesla prese in prestito per andare short e, una volta che il titolo si è impennato, chiudere in fretta e furia quelle posizioni, a qualsiasi prezzo?
Se così fosse – e lo è – significa che a Wall Street si opera in modalità di speculazione ribassista con i soldi della Fed. O, magari, passata la buriana attorno al titolo dell’auto elettrica, ora si usano quei soldi per altro ancora, sempre e ovviamente finalizzato a tenere alte le valutazioni degli indici? Ad esempio, operare buybacks, nonostante il programma ufficiale di quelli annunciati vedesse il primo trimestre di quest’anno ai minimi storici, rispetto alle abbuffate corporate del 2018 e 2019. Eppure, questo grafico ci mostra come, da uno studio di Bank of America, la realtà sia ben diversa: da inizio anno, il livello di riacquisto di propri titoli da parte del settore corporate Usa è oggi del 27% superiore a quanto fosse nello stesso periodo dello scorso anno.
Insomma, se non si coprono posizioni speculative, si operano ancora e ancora buybacks per abbassare il flottante e tenere alto il prezzo delle azioni, affinché il Presidente in campagna elettorale possa continuare a twittare. E in cambio, perseveri nel tutelare il sistema finanziario, come fece già con lo shock fiscale della primavera 2018. Sempre con i soldi dei contribuenti, ovviamente. Un bel sistema, non vi pare? Certo, la contabilità creativa in stile Parmalat o Enron della Cina riguardo i contagiati da coronavirus appare più grave e preoccupante. Ma, attenzione, anche a Wall Street non scherzano. Buon weekend.