La Cina è riuscita a vanificare i risultati che Trump aveva ottenuto la settimana scorsa con l'introduzione delle tariffe

La guerra tariffaria è già mutata in guerra valutaria. E la questione è molto più seria di quanto possa apparire. Ieri all’ora di pranzo, prima dell’inizio delle contrattazioni a Wall Street, il rendimento del decennale Usa ha segnato brevemente il 4,5%. Soltanto giovedì scorso a Washington festeggiavano con petardi e mortaretti la discesa sotto il Rubicone del 4%. Per l’esattezza, 3,89%.



Inutile, spero, dover rispiegare per l’ennesima volta perché questo dato sia chiave, esiziale dell’intera vicenda di contrapposizione globale che stiamo vivendo. Ma facciamolo ugualmente. Da qui a metà settembre, l’America deve rifinanziare 6,5 trilioni di debito. Col decennale al 4,5% e 1,2 trilioni di spese annue solo per interessi, salta il banco. Altro che debt ceiling. E poi, come spiegare quanto accaduto martedì a Wall Street? Com’è possibile annullare un rally da +4,5% in meno di tre ore di contrattazioni?



E qui ecco che subentra l’unica logica che dovete conoscere e capire, l’unica mappa di decodifica, l’unica cartina di tornasole. Vi hanno venduto l’ennesima favoletta. Se lunedì è stata fatta circolare la fake news dei 90 giorni di rinvio per permettere a qualche hedge fund di sfruttare il mini-rimbalzo del mercato ed evitare coperture eccessive nel chiudere le posizioni in fretta e furia, martedì la vulgata è stata la seguente: il mercato azionario si è rimangiato tutto il rimbalzo (del gatto morto), perché Donald Trump è impazzito per l’ennesima volta e ha deciso l’aumento immediato delle tariffe contro la Cina. Qualcosa come il 104%. Una Nagasaki commerciale.



Balle. Tutto quanto va ricondotto a questo: si tratta del grafico di correlazione fra cambio dollaro/yuan con le contromosse Usa. E ripeto e sottolineo: contromosse.

Chi pensate che abbia venduto Treasuries con il badile nella giornata di lunedì, facendo prendere al decennale Usa quasi 40 punti base in un solo giorno e inviando un chiaro segnale alla Casa Bianca rispetto ai suoi piani di rifinanziamento soft di quello stock di debito in scadenza? Ovviamente, il secondo detentore di quel debito: la Cina. Il primo è il Giappone. Che stante i disastri compiuti dalla sua Banca centrale, sta già ampiamente negoziando con Washington.

E il giorno dopo cosa accade? La mossa sullo yuan. Pechino sta svalutando come se non ci fosse un domani la sua moneta. Nella giornata di martedì, è stato toccato il minimo storico. E il conseguente massimo storico per il dollaro nel cambio. Proprio mentre Donald Trump tuona contro le manipolazioni delle altre economie contro gli Usa, la Cina gli sbatte in faccia una svalutazione più drastica di quella del 2015-2016. Quando, come reazione alle fughe di capitali, Bitcoin conobbe non a caso il suo primo step di affermazione come alternativa alle valute Fiat, passando da 200 dollari a 20.000 dollari di valutazione. E questo particolare è meglio che lo teniate a mente.

Altro che dazi al 104%, andate a guardare quando Wall Street ha cominciato a perdere slancio. Alle 10 del mattino ora statunitense, lo yuan è entrato in modalità selling fino al minimo storico. Alle 10 del mattino ora statunitense, la Borsa Usa ha cominciato a limare i guadagni record dell’apertura. Ripeto, l’aumento dei dazi contro Pechino è stata una disperata rappresaglia e non il motivo scatenante della nuova correzione al ribasso. Vi assicuro che è fondamentale non confondere la causa con l’effetto. Altrimenti potreste veramente pensare che la pantomima dei dazi sia vita reale.

In realtà, Usa e Cina stanno già trattando. Da giorni. Il problema sta nella magnitudo senza precedenti del segnale che Pechino ha inviato preventivamente a Washington, un uno-due di warfare finanziario da tagliare le gambe. Come dire, trattiamo ma alle mie condizioni. E con la mia regia.

Perché la Cina prima ha affossato il progetto di rendimenti artificialmente schiacciati attraverso la vendita record di debito Usa – pare oltre 50 miliardi di controvalore nella sola giornata di lunedì – e poi azzoppando il rimbalzo record di Wall Street. Obbligazionario e azionario. Come dire, sappiamo come, quando e dove colpire per farvi male davvero.

E davvero pensate che in uno scenario simile, il problema siano i dazi reciproci e le loro classificazione tariffaria merceologica? Siamo al mercato rionale, forse? Davvero pensate che una guerra commerciale reale, dopo il mega-reset del Covid che solo sul re-shoring delle catene di fornitura globali avrebbe potuto devastare intere economie (vedi Vietnam) senza colpo finanziario ferire, possa svolgersi a colpi di tweet e proclami e che siano questi a muovere qualche trilione di dollari in assets? Davvero pensavate che Donald Trump avesse scientemente affossato Wall Street per colpire a freddo la Cina?

So che la realtà può far paura, lo so perfettamente. Ma negli ultimi due giorni, Pechino ha dimostrato un salto di qualità a livello di ruolo globale senza precedenti. La Cina non è più solo una potenza commerciale e nemmeno solo un player geopolitico attraverso i Brics e l’Africa. La Cina ha dato le carte. La Cina ha operato da banco e da croupier di una guerra che gli Usa erano convinti di aver dichiarato e condotto. E invece, a partire dai rendimenti obbligazionari, gli si sta ritorcendo contro nel modo più doloroso possibile.

Mentre grida all’economia americana che tornerà grande e prospera a colpi di dazi che impongano finalmente un riequilibrio a deficit e surplus commerciali, Donald Trump deve subire l’onta di una Banca centrale cinese che opera un fixing dello yuan a dir poco provocatorio. E mentre Wall Street rimbalza e si guadagna la scena mediatica dopo giorni di profondo rosso, come dolina carsica lascia che quel cambio flottante al ribasso arrivi al minimo storico e affossi la narrativa. Rimescolando le carte. E costringendo tutti a fare i conti con la paura. La vera deterrenza.

Rischiosa, certo, perché la Cina ha tre volte i depositi degli Stati Uniti. E se parte una fuga di capitali da svalutazione record, le ripercussioni anche a livello interno rischiano di essere pesanti. Ma la natura stessa di quel Paese permettono mosse e contromisure che una democrazia non può applicare, se non attraverso emergenze cicliche. Ad esempio, limitare le cryptovalute, se queste accelerano le medesime fughe di capitali. La Cina può. Gli altri necessitano di perdere tempo alla ricerca di alibi. Più o meno virologici.

Pechino non sta vincendo. Pechino ha già vinto. Forse sarebbe meglio ripensare priorità di viaggio. Non a caso, il Premier spagnolo sarà ospite di Xi Jinping domani e dopo. C’è chi capisce dove tira il vento. E chi straccia i Memorandum.

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