È stata una settimana dura, una settimana di contenuti forti. Quindi, almeno nel fine settimana, soprattutto in uno di metà luglio, inutile caricarvi ulteriormente di dati, percentuali, grafici complicati e chissà cos’altro. Francamente, poi, comincio a chiedermi quanto ne valga la pena di stare a impazzire a cercare sempre nuovi indicatori della realtà, a scavare sotto le versioni ufficiali, visto che gli stessi decisori politici e regolatori non hanno più nemmeno la buona creanza di mascherare la loro disperazione. Certo, si arrabattano nell’inventarsi sempre nuove e più o meno credibili cortine fumogene per distrarre la gente, ma, così facendo, riducono il loro lavoro da potere forte che tesse la tela e tira i fili a semplice, ancorché brillante, autore di serie a puntate per Netflix. Una deminutio notevole, se ci pensate.
L’Italia, poi, è ormai alla fase terminale dell’operetta. La giornata di giovedì è stata esemplificativa al riguardo, visto che i due vicepremier hanno dato vita a un remake de La guerra dei Roses, menandosi fendenti a partire dal mattino presto e con ogni mezzo possibile: battibecchi diretti, via Facebook, via comunicati stampa, via comizio. Sembrava, per l’ennesima volta, che questo Governo fosse arrivato al capolinea. Invece, temo, andrà avanti. Per il semplice fatto che votare subito non conviene a nessuno. E ripeto, nessuno. Nemmeno, soprattutto, fra le fila di chi conta davvero. Il quale ha altri piani in testa, altri nomi, altre dinamiche da porre in essere. Serve ancora un po’ di tempo, credo. Soprattutto, se si ha in mente un percorso Ciampi 2.0 per Mario Draghi, formalmente occupato a Francoforte fino al 31 ottobre. Ovvero, premierato tecnico e poi Quirinale.
In compenso, a fronte di uno scenario da apocalisse imminente, lo spread restava sotto quota 190 in apertura di contrattazioni e risaliva a 195 attorno all’ora di pranzo. Tensione certo, ma, signori, un miraggio soltanto un mese fa, quando si flirtava con quota 300. Il mercato prezza, festeggiandolo implicitamente, l’approssimarsi della fine dell’esperienza giallo-verde? Nemmeno per sogno. A palazzo Chigi e nei vari ministeri, per quanto riguarda chi investe, oggi come oggi potrebbero esserci una serie di cartonati o delle comparse di Cinecittà: non cambierebbe nulla. Ma proprio nulla. Si festeggia il last hurrah, cari lettori, l’ultimo folle tentativo delle Banche centrali di mantenere il treno dei mercati globali sui binari, evitando il deragliamento fatale. E, come dicevo prima, non si ha più nemmeno la decenza di mistificare o nascondere la propria montante disperazione: la si palesa chiaramente, ancorché in accordo con le forme e la ritualità da grisaglia d’ordinanza e curriculum con mille voci e roboanti referenze.
Cos’è successo, infatti, giovedì, mentre i ministri Salvini e Di Maio giocavano al remake di Casa Vianello? La Bce annunciava, fra il serio e il faceto, l’apertura di un dibattito interno – per ora informale – sul tema dell’obiettivo inflazionistico. Ragione ufficiale, questa volta, gli scostamenti troppo bruschi sul cambio euro-dollaro degli ultimi tempi, resi implicitamente possibili, oltre che dalla guerra commerciale e dagli attacchi di Trump alla Fed, soprattutto dalle prospettive inflazionistiche di lungo termine – a 5 e 10 anni – che paiono ormai rispondere a dinamiche vecchie e superate. Le quali, di fatto, ingannano i mercati. Balle. Ormai anche poco credibili e poco originali. La Bce sta pensando di seguire l’esempio di quei geni della Bank of Japan, i quali ormai un anno fa abbondante hanno capito che non era più tanto accettabile la scusa di rimandare di trimestre in trimestre la revisione del piano di Qe, appellandosi ogni volta proprio all’inflazione troppo bassa in proiezione sul target. Quindi, hanno deciso di mandare in pensione proprio il target del 2%, quello di fatto statutario come obiettivo per tutti i cicli espansivi globali e di dar vita a una sorta di flessibilità condizionata.
Condizionata a cosa, direte voi? Alle loro esigenze, ovviamente. Ad esempio, nel momento in cui la Bank of Japan ha cominciato a comprare bond sovrani con il badile, inventandosi la necessità di stabilizzare la curva dei rendimenti sullo zero, ecco che si poteva tranquillamente rilassare il target obiettivo verso il basso, tanto il Qe aveva un serbatoio di riserva da cui succhiare benzina. Stessa cosa quando, andati in crisi gli acquisti obbligazionari per disvelamento dell’approccio onnivoro (leggi crollo dei volumi di trading, poiché la BoJ comprava tutto e a qualsiasi prezzo), i nostri amici nipponici hanno deciso di passare agli acquisti di massa direttamente sul Nikkei, ovvero equities via Etf. Anche in quel caso, le dinamiche da stabilizzare nel grande mercato zombie del Sol Levante erano salve e non necessitavano di eccessiva attenzione sul dato inflazionistico. Fondamentale invece per un Paese che ha vissuto 10 anni di devastante deflazione e proprio per evitarne il ritorno ha ufficialmente lanciato l’Abenomics, con la scusa della crisi post-2008. Insomma, se non riusciamo ad arrivare al 2%, nonostante stiamo comprandoci anche l’aria che respiriamo, rendiamo flessibile quel target!
Ovviamente, a nessuno di quei geni delle Banche centrali viene in mente che forse è il metodo a essere errato e non la meta da raggiungere. Anzi, sia la Bce che la Fed sono pronte a nuovo stimolo. L’Eurotower addirittura con un nuovo ciclo di Qe pronto al lancio, stante le aspettative inflazionistiche al minimo dell’1,25% sui 5 anni, mentre la Fed per ora gioca a carte coperte, essendosi già ampiamente sbilanciata nei confronti del mercato, il quale prezza un taglio dei tassi fra dieci giorni alla riunione del Fomc. E sempre giovedì, mentre in Italia andavano in onda le baruffe goldoniane di governo, ecco che John Williams, potente capo dell’altrettanto potente Fed di New York, mandava in sollucchero gli investitori dicendosi certo del fatto che sia meglio che la Federal Reserve intervenga in anticipo con un taglio dei tassi, in base alla regola da spot del dentifricio che prevenire sia meglio che curare. E attenzione, perché Williams è andato anche oltre, evocando la parolina magica: Zirp. Ovvero, zero interest rate policy. Tassi a zero. Che, partendo dall’attuale 2.25-2,50% non è poco. Anzi, rappresenta un bel margine di intervento al ribasso, ben più ampio – ad esempio – di quello nella disponibilità di Mario Draghi, il quale infatti ha già evocato nuovi acquisti diretti, dovendo partire da un tasso benchmark a zero e uno di deposito addirittura già a -0,40%.
Il risultato immediato di queste parole? Ce lo mostrano questi due grafici, il primo dei quali esemplifica come le possibilità di un taglio addirittura di 50 punti base al Fomc del 30 e 31 luglio prossimi siano salite al 65%: a inizio settimana, prima della testimonianza di Jerome Powell davanti al Congresso, erano allo 0%.
È tutto qui, signori. Il mondo gira attorno alle Banche centrali. E questo paradossalmente in nome di una presunta rivoluzione contro i mercati visti come motori immobili del sistema, a uso e consumo delle élites. Le Banche centrali, invece, sarebbero lo strumento dei governi (quindi, dei popoli) per vincere la crisi e la povertà. Questo è il grande inganno che hanno perpetrato, questa la grande percezione che è passata nella società. Qui come in Usa come in Gran Bretagna. Credeteci pure, se volete. Io dico che sono soltanto il mezzo spendibile e populisticamente evocato per rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, visto che la prima vittima dei Qe strutturali è proprio la classe media globale, ovviamente quella euro-statunitense in prima fila. Proletarizzazione di massa in nome del pauperismo al potere: pensateci, alla fine qual è la ricetta dei 5 Stelle, quale miracolo malefico li ha resi prima forza parlamentare? In base a quali promesse e parole d’ordine sono andati al potere?
Lentamente, stiamo scivolando in un mondo che ritiene un progresso sociale e una rivoluzione egualitaria il festeggiare quotidiane rotture di record degli indici azionari ed emittenti corporate sussidiati da soldi pubblici che emettono debito con rendimento negativo, roba che Karl Marx sta ribaltandosi nella tomba. Ma non lo capiamo, perché – occorre ammetterlo – l’inganno è stato preparato con maestria assoluta, un capolavoro totale. Talmente perfetto che oggi le Banche centrali, i veri governi del mondo, possono anche permettersi il lusso di ammettere che sono alla canna del gas e ricorrere a mezzucci o manovre disperate, mentre la gente le applaude, come si applaude il principe azzurro che arriva a salvare la principessa nel bosco. E un regime di questo genere, mentale e sociale prima che politico, va avanti con il pilota automatico, non necessita di un asso del volante.
Non a caso, i nostri Sandra e Raimondo sono alla guida del Paese, pur litigando ogni santo giorno su chi debba sedersi sul lato passeggero. Ma mercati e spread fanno finta di nulla e proseguono lungo la loro strada, salvo qualche sussulto. Fino al muro, però. A quel punto, qualcuno dovrà frenare. Ma chi? E quando?