Ieri la Fed ha lasciato invariati i tassi di interesse. Ma il 28 luglio è accaduto qualcosa di molto importante negli Stati Uniti
Non fatevi ingannare dai comunicati ufficiali. Né dalla reazione di Wall Street alla decisione di mantenere i tassi invariati e a quello sprezzante we don’t have a pre-set course on rates con cui Jerome Powell ha tagliato corto in conferenza stampa a chi gli chiedesse conto di un’eventuale reazione della Casa Bianca. Né, appunto, dal probabile tweet di fuoco che Donald Trump probabilmente dedicherà al suo acerrimo nemico.
Il board della Fed di ieri è stato veramente spartiacque. Epocale, oserei dire. E non per qualche supposta difesa di un’ideale linea del Piave dell’indipendenza della Banca centrale dalle pressioni politiche. E nemmeno per il valore in sé di quell’ennesimo atto di attesa rispetto al costo del denaro negli Usa, nonostante un abbassamento delle stime sulla crescita proprio nel giorno in cui il Pil del secondo trimestre segnava +3% dallo 0,5% del primo. E infine, nemmeno per quei due membri del Fomc usciti allo scoperto in aperto dissenso con la linea del Governatore.
Tutto questo è mera cronaca. Tutto vero. Ma tutto assolutamente falso, al contempo. Perché a partire dal 28 luglio, gli Usa hanno commissariato la Fed. E proprio nella giornata di ieri, a simbolico atto di imperio e quasi di spregio, hanno ufficializzato sottotraccia la rivoluzione.
Gli Usa si preparano a seguire l’esempio del Giappone. Gli Usa si preparano a operare una subdola politica di controllo sulla curva dei rendimenti che si sostanzia, in modo più o meno surrettizio, come uno stealth Qe permanente. E a decidere questa mossa è stato il Tesoro. E non la Fed.
Sta tutto in queste due immagini, di fatto il golpe silenzioso della Casa Bianca sulla politica monetaria per mezzo del fedelissimo Scott Bessent, a questo punto sempre più silente candidato unico alla successione di Jerome Powell il prossimo maggio.
Il 28 luglio, il Tesoro annunciava un abbondante raddoppio dell’indebitamento via emissione nel trimestre luglio-settembre, qualcosa come 1 trilione e rotti contro le stime di 453 miliardi diffuse e confermate solo lo scorso aprile. E state certi che anche i 590 miliardi previsti per il quarto trimestre subiranno un clamoroso aumento.
Perché questo conta, al di là dell’ennesima previsione rivista al rialzo in fatto di indebitamento? Perché parliamo di qualcosa come 1,6 trilioni in soli 6 mesi (luglio-dicembre). E non per operare stimolo su un’economia che a detta della Fed rallenta, mentre in base ai numeri ufficiali recupera in maniera sostanziale dal primo trimestre.
Tutto questo serve solamente per il refill del Tga, il conto corrente federale con cui il Governo manda avanti la spesa di tutti i giorni. Ma non è nemmeno questo il vero atto prodromico alla disintermediazione del ruolo della Fed. Bensì, quel cambio di operatività nella politica di buybacks di titoli di Stato a lungo termine, i quali passano da due a quattro volte a trimestre, alzando quindi il controvalore da 30 a 38 miliardi.
Lo aveva promesso. Lo ha fatto. Il 15 aprile scorso, infatti, in piena bufera tra Casa Bianca e Banca centrale, Scott Bessent rivelò di pranzare con Jerome Powell tutte le settimane, al fine di confrontarsi su argomenti di vitale importanza per l’economia Usa. E a chi gli chiedesse quale sarebbe stata la sua reazione, a fronte di una Fed che continuasse con la sua politica di mantenimento invariato dei tassi, il ministro delle Finanze parlò di un big toolkit nelle mani del Tesoro.
Ovvero, proprio aumentare i buybacks di titoli a lungo termine, di fatto togliendo dai bilanci bancari carta ormai difficilmente negoziabile se non su valutazioni sideralmente lontane dal valore facciale che invece viene garantito da Zio Sam.
Nemmeno a dirlo, ecco che sul medio termine un primo, efficace strumento per schiacciare i rendimenti in vista del roll-over sui quei 7 trilioni di debito in scadenza veniva platealmente preannunciato. Senza che la Fed battesse ciglio.
Di fatto, quindi, gli Usa oggi si trovano in posizione assolutamente invidiabile. E non solo per il fatto che con ogni probabilità, il mercato prezzerà già da domani quel sostegno mascherato del Tesoro e comincerà a rivalutare i Treasuries.
Bensì perché, stante il ragionamento sul livello di esposizione a leverage e azzardo di Wall Street di cui vi parlavo nel pezzo di martedì, gli Stati Uniti possono contare su una potenza di fuoco enorme rispetto a Bce e Bank of England, ad esempio, in caso di crisi finanziaria o venti recessivi che impongono drastici interventi al ribasso sui tassi.
Perché una cosa è tagliare 25 o anche 50 punti base, partendo però dal 2%. Un’altra permettersi il lusso di poter tagliare di tre quarti di punto. O, magari, di 100 punti base in un solo colpo. Un bazooka. Lo stesso evocato casualmente da Donald Trump solo un paio di settimane fa, proprio nel corso dell’ennesimo, alluvionale attacco via social contro la Fed.
E non basta. Quest’ultima immagine ci mostra un particolare dell’accordo fra Usa e Giappone sostanziale. E totalmente ignorato dai media.
Dei circa 550 miliardi di investimenti giapponesi negli Usa attraverso il cosiddetto partnership fund, soltanto il 2% massimo sarà operato con interventi diretti finanziati. Il resto sarà per la grandissima parte loans-based. Ovvero, basato su prestiti. E qual è la forma di prestito per antonomasia fra Stati? Acquistare debito pubblico. Il medesimo che Tokyo minacciava di svendere dalle proprie detenzioni sul mercato secondario nel corso della fase preliminare e preparatoria ai colloqui sul commercio. E che invece, oggi, quasi certamente terrà ben stretto, al fine di evitare ritorsioni. Magari sull’automotive.
E probabilmente, stante il trend di apprezzamento che i Treasuries potrebbero ora godere grazie alla mossa di Bessent, il Giappone potrà decidere anche di incrementare le proprie detenzioni, garantendo così a Miss Watanabe rendimento e sicurezza. Tutto questo è accaduto nel silenzio. E nelle ultime 72 ore. Ma, soprattutto, totalmente al di fuori dell’ambito di operatività di una Fed ritrovatasi commissariata.
Ma attenzione, perché il bicchiere mezzo vuoto di questa situazione sta nella sua ontologica ed esiziale necessità e nei tempi strettissimi in cui si è consumata. Sintomo che qualcosa sta per accadere. O, nel caso, deve accadere, se davvero occorrerà che al pivot del Tesoro segua e si unisca il tantrum della Banca centrale che tramuti lo stealth Qe in Qe tout court.
E proprio il Giappone potrebbe ancora una volta venire incontro alle esigenze di Zio Sam: oggi la Bank of Japan decide sui tassi. Con il titolo a 30 anni alle soglie del 3,1% di rendimento nonostante 5 interventi sul collaterale in dollari in 48 da parte della medesima Bank of Japan. Altro che Fed.
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