Francia in crisi politica e da sovraindebitamento: il grande centro di Macron e le sue scelte l'hanno resa fragile, un rischio per tutta l'UE
“La Francia sta pagando oggi la scommessa del grande centro, che ha fatto implodere sessant’anni di bipolarismo istituzionale”. Con queste parole, Francesco De Remigis, già corrispondente da Parigi ed esperto di politica francese, sintetizza la fase più delicata della Quinta Repubblica.
A settembre 2025 il Paese affronta un debito pubblico vicino ai 3.300 miliardi, con un deficit ancora oltre il 5%, e un quarto governo in bilico in dodici mesi. Le piazze tornano a riempirsi, mentre mercati e agenzie di rating evocano paragoni con l’Italia di dieci anni fa e persino con la Grecia.
In questo scenario di fragilità politica ed economica, abbiamo chiesto a De Remigis di aiutarci a leggere le contraddizioni di una Francia che, tra riforme incompiute, tentazioni autoritarie e piazze infuocate, rischia di trascinare con sé l’intera Unione Europea.
Partiamo dal nodo politico: questa crisi è diversa dalle altre?
La crisi non è una sorpresa: è già in corso da oltre un anno. L’Assemblea nazionale è uscita tripolare dallo scioglimento voluto da Macron, senza maggioranza solida per alcun partito o coalizione. Il risultato sono governi fotocopia che cadono come tessere di un domino. È già successo con un premier lo scorso autunno (Barnier, ndr), e rischia di ripetersi. La differenza è che in passato il sistema francese garantiva almeno la coabitazione: se il presidente attraverso il suo partito non avesse avuto i numeri, sarebbe entrato in scena un governo di segno diverso.
Oggi invece?
Oggi tutto è bloccato, Macron ha finora escluso ogni ipotesi di nomina di un premier indicato dal partito che l’estate scorsa ha preso più voti, i lepenisti, e anche uno proveniente dalla coalizione delle sinistre, senza lasciare agli avversari la possibilità di costruire una maggioranza. E la paralisi istituzionale si somma a quella economica.
La scelta centrista di Macron ha distrutto il tradizionale bipolarismo?
È questo il punto. La Quinta Repubblica si reggeva su due pilastri: i gollisti a destra e i socialisti a sinistra. Macron, dal 2017, ha tentato di costruire un “grande centro”, mettendo insieme vari pezzi dell’arco parlamentare e società civile con poca esperienza politica. Ma così ha snaturato il sistema. Ha governato con primi ministri che erano poco più che suoi alter ego, senza una vera dialettica istituzionale. Questo ha illuso i francesi di avere stabilità, invece ha scavato un vuoto. Oggi ci ritroviamo con un tripolarismo: il centro senza più maggioranza, la sinistra radicale che traina l’alleanza della gauche e l’estrema destra. Tre blocchi che si neutralizzano a vicenda.
Sul piano economico, i dati sono ancora più sorprendenti. Nonostante la retorica della crescita, il debito continua a salire. Perché?
Perché da cinquant’anni la Francia spende più di quanto incassa. Ma negli ultimi anni, soprattutto durante la presidenza Macron, il ritmo è accelerato. Gli investimenti fatti non hanno reso quanto promesso, il Covid ha aggravato tutto e le riforme strutturali sono state bloccate dalle piazze. Quando Macron ha provato ad aumentare di pochi centesimi le accise sui carburanti, è esplosa la protesta dei gilet gialli. Quando ha voluto riformare le pensioni, ha dovuto forzare la mano senza avere i numeri. Il risultato è che oggi parliamo di un debito che sfiora il 110% del PIL, con una crescita quasi ferma.
Lei ha citato la riforma delle pensioni: è stato quello il vero punto di rottura con i cittadini?
Sì, quella riforma ha segnato uno spartiacque. Portare l’età pensionabile a 64 anni con una decisione d’imperio senza voto parlamentare ha incrinato definitivamente il rapporto con i sindacati e con gran parte dell’opinione pubblica. I francesi hanno percepito non solo un sacrificio economico, ma anche una forzatura istituzionale. È lì che si è rotto quel tacito patto di fiducia tra popolo e presidente che in Francia ha sempre avuto un valore quasi sacrale.
E adesso il premier Bayrou propone un piano di rigore da 44 miliardi per il 2026. Cosa comporterebbe concretamente?
In pratica, un “anno bianco”: stipendi pubblici e pensioni non più indicizzati all’inflazione, tagli alla spesa corrente, nuove tasse su alcune fasce di reddito. Significa che milioni di famiglie vedrebbero ridursi il potere d’acquisto in un momento in cui i prezzi dell’energia e degli alimenti restano alti. È una ricetta che rischia di incendiare ulteriormente le piazze.
A proposito di piazze: il 10 settembre sono previsti nuovi cortei e per il 18 addirittura uno sciopero generale. Dunque è una replica dei gilet gialli?
Rischia di diventarlo. C’è un malcontento diffuso che non appartiene più solo all’estrema destra o all’estrema sinistra, ma che coinvolge il ceto medio. La Francia ha costruito per decenni il suo modello sociale sull’idea che lo Stato ti protegge. Oggi questa protezione sembra venire meno e i cittadini non accettano di essere loro a pagare il prezzo delle scelte sbagliate.
E i partiti che si sono opposti in questi anni alle leggi di bilancio della Macronie e a provvedimenti che hanno portato a questo aumento del debito, oggi non ci stanno a rispondere sì alla richiesta di responsabilità fatta da chi, Bayrou incluso, questa voragine ha contribuito negli ultimi anni a produrla o sostenerla con i voti favorevoli. Bayrou, e il suo partito di centro, hanno sempre votato le leggi di bilancio dei macroniani ed è stato il suo più stretto alleato sul piano dei numeri parlamentari.
I mercati intanto puniscono la Francia. Ma è davvero realistico il paragone con la Grecia di dieci anni fa?
È un paragone eclatante, ma serve a rendere l’idea. Le agenzie di rating hanno già declassato la Francia, lo spread con il Bund resta basso rispetto all’Italia, ma i rendimenti dei titoli a dieci anni sono ai massimi dell’eurozona. La cosa paradossale è che un Paese considerato “cuore dell’Europa” oggi paga interessi da periferia. Non siamo ancora al commissariamento internazionale, ma il fatto stesso che se ne parli è un campanello d’allarme clamoroso.
Che ruolo possono avere, in questo quadro, le opposizioni?
La destra di Marine Le Pen ha annacquato i toni anti-europeisti, ma chiede tagli drastici al welfare per l’immigrazione e la rinegoziazione del contributo a Bruxelles. La sinistra radicale di Mélenchon cavalca le piazze, mentre i socialisti fanno da ago della bilancia: senza di loro non passa nessuna mozione di sfiducia.
È paradossale, ma i vecchi partiti che Macron aveva marginalizzato tornano oggi decisivi. Eccezion fatta forse per i neogollisti, che non si sono ancora ripresi dal drenaggio di personalità politiche di peso e idee azionato da Macron, perdendo di conseguenza consensi in favore dei lepenisti.
Guardando oltre i confini francesi: quanto pesa questa instabilità sugli equilibri europei?
Pesa tantissimo. Un’Europa già debole sul piano internazionale non può permettersi una Francia in crisi. L’asse con la Germania è inceppato, e sul fronte ucraino Parigi propone la “coalizione dei volenterosi” con l’invio di truppe: una linea che divide e che nasce anche da interessi industriali legati alla difesa. Ma se la Francia non riesce a mettere ordine a casa propria, rischia di trascinare tutta l’UE in una spirale di debolezza.
Cosa può accadere nelle prossime settimane?
Ci sono tre scenari: un nuovo premier che sarebbe allo stato attuale quasi certamente senza maggioranza assoluta, lo scioglimento dell’Assemblea con un voto che riprodurrebbe lo stesso tripolarismo e una ingovernabilità di fatto, o, ipotesi estrema, le dimissioni del presidente. Macron le ha escluse, dicendo che resterà fino all’ultimo quarto d’ora del mandato. Ma la realtà è che, se non si trova un compromesso politico, la Francia resterà sospesa in una crisi permanente. E questo, per un Paese fondatore dell’Europa, è forse il dato più inquietante.
(Max Ferrario)
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