Trump chiede ad Hamas di liberare gli ostaggi minacciando ritorsioni. Sta trattando (senza Israele) il disarmo dell’ala militare e il futuro di Gaza

Trump mette da parte Israele e tratta direttamente con Hamas, non solo sugli ostaggi, ma anche sul dopoguerra. E il tema vero da affrontare per arrivare alla pace e dare un futuro a Gaza è il disarmo di Hamas e la sua trasformazione in un’entità meramente politica. Un problema non da poco da risolvere, osserva Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, ma essenziale per sperare in una soluzione che possa essere presa in considerazione da Israele: Tel Aviv non vuole vedere più in azione gruppi armati come quelli delle brigate Ezzedin Al Qassam.



Gli USA, a differenza di quanto succedeva con l’amministrazione Biden, hanno preso l’iniziativa senza farsi dettare la linea da Netanyahu, che però, per salvare la sua carriera politica, potrebbe anche decidere unilateralmente di tornare a combattere. Trump, però, ha già dato un ultimatum ad Hamas, perché i colloqui non starebbero andando come vuole lui: se non libereranno tutti gli ostaggi, Gaza tornerà ad essere un inferno.



Gli USA trattano direttamente con Hamas (e con i mediatori di Qatar ed Egitto) la liberazione degli ostaggi, ma anche le condizioni per una possibile conclusione della guerra. Come si spiega questa decisione di Trump?

Un’iniziativa interessante, che va vista nel contesto di quello che ci sta mostrando l’amministrazione Trump, vale a dire la rottura dei paradigmi. In questo caso, il paradigma rotto è il contatto diretto.

Gli Stati Uniti, nel corso della loro storia, hanno trattato con i cattivi di turno, ma qui la novità è nel fatto che stiamo parlando di Israele e Palestina, dove l’alleanza con gli israeliani pesa al punto tale da poter bloccare tutto. Tel Aviv, in realtà, ha sempre trattato con Hamas, ma ha anche posto come condizione che nessuno negoziasse con l’organizzazione palestinese. Trump rompe una consuetudine durata decenni, confermando che ora sono gli USA a dire a Israele cosa deve fare.



Trump dice che Hamas deve liberare gli ostaggi o scatenerà l’inferno, Hamas risponde che verranno liberati nell’ambito della fase 2. Ma la trattativa diretta sembra riguardare il dopoguerra, il futuro di Gaza, addirittura discutendo anche dei nomi di chi potrebbe gestire la Striscia. Si sta arrivando finalmente al cuore della questione?

La presenza, come mediatori nella trattativa, non solo del Qatar ma anche dell’Egitto mette insieme i due tavoli: quello in cui ci si occupa della liberazione degli ostaggi e dei prigionieri palestinesi (alcuni dei quali reclusi in detenzione amministrativa, senza neanche accuse) e quello dove il tema è la governance di Gaza. Non per niente, al Cairo, al recente vertice dei Paesi arabi, si è parlato anche di quest’ultimo tema, stabilendo che la gestione della ricostruzione venga affidata a persone di Gaza, che però non siano legate alle fazioni. Su questo aspetto Hamas ha già deciso di fare un passo indietro.

Poi, però, appunto, bisogna pensare anche a come governare la Striscia negli anni a venire. Qui qual è il nodo da sciogliere?

L’idea di riprendere i bombardamenti preoccupa non solo gli arabi, ma anche gli europei, che cominciano a vedere che c’è un problema di giustizia e complicità internazionale, tanto è vero che stanno chiedendo a Israele di riprendere l’invio degli aiuti umanitari. Proprio per questo motivo c’è stata un’accelerazione degli arabi, che hanno chiesto alle fazioni palestinesi di mettersi d’accordo: se non inizia la seconda fase, vuol dire che riprende la guerra, anzi, il genocidio di Gaza. E nessuno dei Paesi dell’area se lo può permettere.

Per uscire dall’impasse, tuttavia, i palestinesi devono dare un’immagine il più possibile credibile di sé. Come devono procedere per guadagnarsela?

La questione sul tappeto è che fine fanno i leader di Hamas, sia dell’ala politica che di quella militare, che ancora controllano Gaza. Se l’obiettivo è disarmarli, bisogna offrire loro qualcosa in cambio, anche se è difficile stabilire cosa. Potrebbe essere l’esilio, ma, conoscendo le brigate Ezzedin Al Qassam, la risposta sarebbe no.

Oppure una soluzione politica per Hamas, facendolo entrare nell’OLP, l’unico rappresentante legittimo della popolazione palestinese. Israele non accetterà mai una Gaza sotto il controllo di una forza interna, con la presenza delle brigate Ezzedin Al Qassam. Ma c’è un problema anche dentro Hamas, come si evince dall’intervista che Moussa Abu Marzouk ha concesso al New York Times: una parte dell’ala politica inizia a smarcarsi dal 7 Ottobre, pur in maniera molto ambigua.

Da cosa lo si evince?

Abu Marzouk, rischiando per questo un’indagine disciplinare interna, ha dichiarato che, se avesse saputo come sarebbe stato il 7 Ottobre e quali conseguenze avrebbe comportato, si sarebbe opposto. Queste parole dicono che l’ala politica sa che può rimanere in piedi se si smarca dalla presenza sempre più ingombrante delle brigate Al Qassam.

Hamas non si staccherà mai dall’ala militare, elemento costitutivo del movimento, ma il fatto che questa abbia assunto un ruolo politico sempre più evidente probabilmente comincia a essere percepito come un problema.

Quindi il vero obiettivo dei colloqui diretti USA-Hamas è definire il disarmo dell’organizzazione?

Almeno ci provano. Che ci riescano è un altro discorso. Quando si va sui negoziati diretti, non si parla solo di ostaggi.

Israele, per adesso, è in silenzio, dice di non sapere niente delle trattative americane. Possibile che Netanyahu sia lasciato all’oscuro?

Le fonti di stampa dicono che Israele non sia stato informato. Alcuni sostengono che i negoziati vadano avanti da fine gennaio, altri da un paio di settimane. Secondo me, è molto probabile che gli americani non abbiano fatto sapere nulla a Israele.

D’altra parte, nella madre di tutte le conferenze stampa, quella di Trump con Netanyahu dopo l’incontro negli USA, quando il presidente statunitense ha detto che l’America si sarebbe presa Gaza, il premier israeliano, a giudicare dalla sua faccia, non ne sapeva niente. È lì che è cominciato questo rapporto in cui chi è subalterno non è Trump, o gli USA, ma Israele. Era il 4 febbraio, è passato oltre un mese.

USA e Israele su questa strada potrebbero arrivare a una rottura?

Non credo. A meno che Netanyahu non tenti il tutto per tutto e ricominci a bombardare Gaza. Se non riprende la guerra, la sua carriera politica è finita. È abbastanza spregiudicato, non la considererei un’ipotesi peregrina.

(Paolo Rossetti) 

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