Il 6 maggio il parlamento tedesco voterà Friedrich Merz nuovo cancelliere, ma la "normalità" tedesca nasconde un'altra verità. Gli elettori sono irritati
Il 6 maggio il parlamento tedesco voterà Friedrich Merz nuovo cancelliere. Tutto dovrebbe andare secondo i piani, anche se l’approvazione formale del contratto di governo è arrivata finora soltanto dalla CSU: i socialdemocratici si apprestano a votarlo in questi giorni (i giovani SPD sono contrari), mentre la CDU lo farà in occasione del congresso del partito, il prossimo 28 aprile.
I fatti rilevanti sono due, spiega al Sussidiario Edoardo Laudisi, scrittore e traduttore, autore di un saggio uscito nel 2020 sull’“anno nero” della Germania. Il primo è la gravissima crisi istituzionale, nascosta dietro un contratto di coalizione raggiunto per escludere dalla cancelleria il vero vincitore del 23 febbraio, Alternativa per la Germania (AfD).
Il secondo è il recente sondaggio Ipsos, realizzato a 40 giorni dalle elezioni federali. Le intenzioni di voto premiano AfD, che con il 25% dei consensi risulta il primo partito, un punto in più rispetto al 24% di CDU-CSU.
Oggi la vera ombra “nera” che si allunga sulla Germania non è quella di AfD, ma quella del riarmo. A favore i partiti della prossima coalizione di governo, contrari AfD, BSW e, con molte contraddizioni, la Linke.
La crisi è grave, osserva Laudisi, perché la politica appare governata da una serie di doppiezze pericolosissime.
L’accordo di coalizione CDU-CSU-SPD è stato raggiunto e in maggio Friedrich Merz sarà eletto cancelliere. Qual è, al momento, il dato politico?
Il famoso contratto, che santificava la serietà dei partiti politici tedeschi a impegnarsi su punti programmatici specifici per ben governare, è ormai solo una foglia di fico dietro al quale si nasconde una crisi istituzionale gravissima. Il dato reale è questo: un partito che ha vinto, ma non stravinto le elezioni dello scorso febbraio prendendo il 20,8% di voti, l’AfD, viene scansato come un lebbroso ed escluso da ogni dialogo, accordo, pre-accordo o intesa parlamentare. Mentre un partito che ha straperso, lasciando sul campo quasi il 10% dei voti rispetto alle penultime elezioni, la SPD, viene tenuto al governo come un cadavere che cammina.
È questa la crisi istituzionale?
Sì, perché le conseguenze di questo comportamento da DDR sono devastanti per la democrazia tedesca. Confermano il sospetto, che ormai hanno sempre più cittadini tedeschi, che il voto non serva a nulla se va contro la volontà delle élites al potere. In Germania è un messaggio pericolosissimo. Stando così le cose, i programmi sono solo un chiacchiericcio usato dai partiti per sviare l’attenzione dall’elefante nel soggiorno.
In marzo la maggioranza di un parlamento sciolto ha approvato la riforma costituzionale del freno al debito (Schuldenbremse), che consente di esentare dal vincolo le spese militari che superano l’1% del Pil. La Germania ha cambiato le regole costituzionali per riarmarsi. Cosa dice l’opinione pubblica di questo fatto?
Nulla, a parte qualche pigolio dei liberali che ormai sono destinati a diventare un partito da vecchio prefisso telefonico. Ma anche in questo caso il silenzio è d’oro, perché evita di porre dei quesiti inquietanti sull’assoluta arbitrarietà delle tanto magnificate regole.
Ad esempio?
Uno su tutti: come mai per la Grecia devastata dalla crisi del debito nel 2015 non si è voluto fare assolutamente nulla, a parte ripetere il mantra “selber Schuld”, colpa vostra. Faccio notare che Schuld in tedesco vuole dire sia “colpa” che “debito”. Allora bisognava rispettare il sacro vincolo di bilancio, mentre oggi non si fa una piega ad infrangerlo per scopi bellici. La Germania è veramente così in pericolo da dover iniziare il percorso di trasformazione in un’economia di guerra?
Come è schierata la grande stampa mainstream?
Spinge per la Grosse Koalition come se non ci fosse un domani.
Cosa dice l’elettorato di sinistra, tradizionalmente pacifista?
Quel tipo di elettorato è andato in coma profondo e dubito si possa risvegliare. Il fallimento della lista di Sahra Wagenknecht, che non è riuscita a superare la soglia di sbarramento e quindi è fuori dal Parlamento, ha tolto di mezzo forse l’unico partito che avrebbe potuto contrastare il panico da guerra che si è diffuso in Germania dopo la manovra spaccatutto di Trump sull’Ucraina.
E l’altra sinistra, Die Linke?
Nella sinistra radicale dei Linke si sono rimessi a leggere i vecchi prontuari di Marx e Lenin stampati nella ex Germania comunista, e nel loro programma hanno inserito l’abolizione dei miliardari, per il momento a colpi di stangate fiscali, in futuro chissà.
Ma è fondata l’aspettativa di alleviare la crisi industriale tedesca mediante il riarmo?
A mio avviso no. Innanzitutto perché riconvertire un’economia industriale avanzata come quella tedesca in economia di guerra, perché in ultima analisi si tratterebbe di questo, non è fattibile a meno di mettere Albert Speer (architetto di Hitler e ministro per gli armamenti del Terzo Reich, nda) al ministero dell’industria. E poi si devono considerare i costi, come un probabile crollo del Pil che sarebbe implicito in un passaggio del genere almeno nei primi tempi, e la diminuzione dei beni di consumo a disposizione della popolazione. Dopodiché si dovrebbe ragionare sulle cifre reali.
Che cosa intendi dire?
Secondo il sito della Bundeswehr oggi l’esercito tedesco conta 181.596 soldati effettivi, di cui 24.842 donne, 930mila riservisti e sei battaglioni di carri per un totale di 350 carri Leopard 2. La cifra è in linea con quella di un Paese non in guerra. Per aumentare questi numeri ci vuole qualcosa di più che il conflitto in Ucraina.
Cosa c’è per i ceti medio-bassi nel programma di governo?
Per loro c’è l’eterno ritorno dell’aumento del salario minimo. Un piatto riscaldato che va sempre bene per riempire i vuoti di idee.
Una politica di riarmo, in un Paese pacifista, richiede sempre un alibi molto forte. Ogni emergenza infatti deve essere plausibile, potersi giustificare agli occhi degli elettori. Questa operazione è riuscita?
L’alibi è Trump, ovvero la fine dell’ombrello militare americano. Paradossalmente l’apertura dei colloqui, difficilissimi, tra Russia, Usa e Ucraina che non si parlavano da anni, ha scatenato il panico da guerra invece che generare speranze di pace. La paura è dovuta al fatto che gli USA di Trump non sembrano più disposti ad accollarsi la difesa dell’Occidente inteso come USA più Europa e questo potrebbe portare alla fine dell’alleanza Nato per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
In ogni caso, il problema c’è.
Il problema, non solo per la Germania ma per tutta l’Europa, è serio, ma andrebbe affrontato in modo strategico. L’impressione è invece che alcuni settori della società tedesca stiano cercando di approfittare di questa crisi per ottenere un aiuto con cui uscire dall’altra crisi, quella causata dall’aumento dei costi energetici e dalla fine del mercantilismo tedesco. Per tornare alla domanda, è presto per dire se questa operazione sia riuscita; certamente i media ce la stanno mettendo tutta affinché ciò accada.
AfD è ulteriormente salita nei consensi. Qual è il suo orizzonte politico?
Potenzialmente enorme, visto che i partiti tradizionali continuano a non voler prendere atto dello scollamento tra cittadini e politica. Il limite è dovuto alla capacità politica dei leaders di Alternativa, o meglio, all’incapacità di liberarsi della cattiva reputazione. L’operazione non è semplice, quando i media ti hanno ritagliato addosso l’uniforme nazista e il mondo culturale invoca un giorno sì e l’altro pure la tua abolizione.
E questo è nelle cose. Ma perché parli anche di incapacità?
Perché se ci metti del tuo presentando dei candidati che ricordano i nostri leghisti degli anni ottanta e hai nei ranghi gente come Maximilian Krah, che aveva sminuito i delitti delle SS, anche se poi dopo è stato cacciato, la cattiva reputazione fatica ad andare via. E così, alle scorse elezioni l’elettore tedesco ha preferito, forse per l’ultima volta, l’usato sicuro della CDU-CSU alla novità ambigua della AfD, che gli è parsa troppo di destra, troppo acerba e troppo poco affidabile.
Merz e il ceto politico che si appresta a governare la Germania hanno un loro progetto europeo, una idea di Europa e di Unione Europea?
Assolutamente no. Merz o chi gli sta intorno non ha nessun disegno in mente, tantomeno europeo. Offuscato per anni da Angela Merkel aveva lasciato la politica attiva nel 2009 per darsi all’attività a lui più congeniale: membro del Consiglio di amministrazione di grandi società finanziarie. Lì, ben rintanato nella pancia del capitalismo finanziario occidentale, ha atteso come un giapponese nella foresta che Angela si ritirasse. Ora è arrivato il suo turno ma è stato sfortunato; l’epoca d’oro del mercantilismo tedesco sta tramontando, la crisi tedesca, e di conseguenza anche quella europea è soltanto all’inizio e lui, uomo del passato, non ha nessuna risposta.
Un’ultima domanda. Qual è il ruolo delle politiche green nel complesso quadro culturale e politico della Germania post-voto?
Il tema Green Deal e Climate Change è sparito dall’ultima campagna elettorale e i verdi sono fuori gioco. Di conseguenza il tema perde peso, anche se dal punto di vista ideologico rimane molto potente per il tedesco medio.
Cosa farà il governo?
Si può supporre che metterà formalmente la transizione in agenda; al momento è fuori dalla discussione politica. Questo probabilmente avrà conseguenze a Bruxelles, anzi si possono già vedere, dato che la stessa von der Leyen su certi punti non è più intransigente come prima. Ma fare scenari, adesso, è prematuro.
(Federico Ferraù)
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