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Home » Politica » Giustizia » STOP ALL’ABUSO D’UFFICIO/ Primo vero colpo al populismo giudiziario, ora tocca alle carriere

  • Giustizia
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STOP ALL’ABUSO D’UFFICIO/ Primo vero colpo al populismo giudiziario, ora tocca alle carriere

Paolo Torricella
Pubblicato 10 Gennaio 2024
Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, con Carlo Nordio, ministro della Giustizia (Ansa)

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, con Carlo Nordio, ministro della Giustizia (Ansa)

Ieri la Commissione Giustizia del Senato ha cancellato il reato di abuso d'ufficio. I voti di Italia viva si sono aggiunti a quelli della maggioranza

Abuso addio. Non ci mancherà, statene certi. Da quando lo scontro tra politica e magistratura è sorto, per capirci da Mani Pulite trenta anni fa, il reato è stato rivisto, rimaneggiato, riscritto e interpretato innumerevoli volte. Sempre provando a definire cosa sia un abuso. La materia è ostica. Nell’abuso non girano denari, se così fosse sarebbe altro. È una condotta che si concretizza se un pubblico ufficiale agisce per favorire o svantaggiare qualcuno. Anche se costui ne sa poco. Diventa perciò essenziale capire se intimamente un soggetto che deve scegliere, firmando un atto, lo abbia fatto in buona fede.


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E qui viene il bello. Perché chiunque sceglie, alla fine, reca un danno o un vantaggio. E spesso lo fa senza neppure saperlo. Ma la magistratura indaga, sequestra a volte arrestava solo perché ne aveva il sospetto. Di qui il terrore che ogni decisione presa finisse nelle mani di un procuratore e ne scaturisse un pandemonio.


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Sia chiaro: a voce bassa tanti politici locali di destra e sinistra, tanti funzionari, applaudono. E sono molti a sinistra, ben inteso. Ed ora che pare sia pronta la definitiva elisione del reato, si può anche dire che la campagna sulla giustizia della Meloni procede. Senza i proclami di inizio governo ma incidendo dove faceva più male.

Va detto che le opposizioni sono contrarie, ma è solo scena. Chiunque abbia amministrato anche a Roccapiripizzoli di Sotto sa che firmare un qualsiasi atto è come gettarsi da un ponte legati ad un elastico sperando che regga. Ogni volta. E così non si governa.


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Ma questa abrogazione è figlia, come altre iniziative, anche del venir meno del principale antagonista delle forze avverse alla sinistra. Senza Berlusconi non ha più senso logico portare in piazza girotondi, folle e benpensanti. Era lui che univa. La lotta contro di lui. Ora che non c’è più, i reati appaiono per quel che sono: strumenti di controllo, non argomenti di lotta. Ed infatti Calenda e Renzi hanno marcato la differenza. Mettendosi di lato e di fatto sostenendo un’abrogazione che il buon senso suggerisce utile anche a togliere terreno ad una magistratura oggi sempre più smarrita e perciò alla ricerca di nemici.

Sul piano sociale, sia ben chiaro, la rivoluzione imporrà ai magistrati di trovare le prove di corruzione o concussione e riportare le indagini sulla traccia dei soldi e delle utilità. Insomma gli amministratori locali saranno più sereni, ma stiano attenti anche a chi gli offre un caffè o li invita a cena. Dovranno pagare sempre loro se non vorranno cadere sotto la scure dei pm.

Ora si aspetta la fase due del cammino di Giorgia Meloni, ovvero la separazione delle carriere. A cui si arriverà, perché, nonostante quello che dicono, anche tanti dell’opposizione la guardano con interesse. Il Paese è cambiato, non c’è più il Caimano. È ora che ne prendano atto le toghe e chi le sostiene dai tempi del populismo giudiziario. Giorgia, che di populismo se ne intende, sa che ora gli italiani vogliono le tasche piene e le cose fatte. Sa che fallire sul PNRR è sull’economia è l’unico peccato che gli elettori non perdonerebbero. Che poi lo si faccia facendo qualche abuso, conta meno.

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Tags: Giorgia MeloniMatteo RenziCarlo CalendaSilvio BerlusconiGoverno Meloni

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