Su oltre 3500 operatori sanitari, due su tre hanno i sintomi dell’esaurimento da stress lavorativo. E’ ovvio che sia così, data la mole di lavoro gigantesca che hanno dovuto affrontare in un anno e mezzo di pandemia. Ma la realtà è che la pandemia ha toccato anche altre categorie di lavoro, in primis quelle soggette allo smart working, ci ha detto in questa intervista lo psicologo Paolo Crepet, specializzato in problematiche educative giovanili, il cui orario di lavoro con la scusa della raggiungibilità si è dilatato causando uno stress enorme. Ma il superlavoro, e l’esaurimento che ne deriva, erano presenti da tempo, da quando il mondo del lavoro ha subito una accelerazione dovuta alle nuove tecnologie, ma anche a uno sfruttamento dovuto a una concezione dell’impegno professionale come rincorsa continua al successo, sfruttamento e anche ricatti veri e propri (“Se non ti va bene così, fuori della porta c’è la fila di gente che cerca lavoro”).
In un certo senso siamo tornati a prima delle conquiste sindacali di fine anni 60 (“Il sindacato è morto” dice Crepet “non può più controllare i lavoratori, è stato ucciso dalla tecnologia digitale”). Per chi continua a lavorare in azienda pesano la mancanza di dialogo, di condivisione, di riconoscimento professionale e anche economico. “C’è da fare anche i conti con la robotizzazione dell’industria, la cosiddetta 4.0, che lascerà a casa il personale medio basso e porterà a fare i turni di notte professionisti di livello, laureati, per controllare il robot che funzioni 24 ore al giorno. Ci sono domande aperte a cui è necessario dare risposta”.
Lo stress da lavoro, il cosiddetto burn out, con la pandemia ha toccato punte molto alte, ma in realtà è un fenomeno che esiste da tempo. Quanto ha inciso il cambiamento del mondo del lavoro?
Bisogna capire come incide. Un conto è avere un capo che ti stressa perché vuole la competizione all’interno dell’azienda, questo è lo stress diciamo classico che attraversa varie categorie. Oggi però con lo smart working il mondo del lavoro sta cambiando ed è chiaro che cambia il livello di stress a cui siamo sottoposti.
Cioè?
La pandemia ha accelerato enormemente questo cambiamento del lavoro, quale sarà il prodotto finale non lo sappiamo. Lo smart working sembrava un’arma vincente, adesso invece è molto criticato. Ogni soluzione o presunta tale ha sempre due facce.
Lo smart working, ma non solo, mette il lavoratore davanti a una realtà dove il lavoro non finisce mai, per così dire. A chi si lamenta viene risposto “ringrazia che un lavoro ce l’hai”.
Questo è un ricatto, ma noi esseri umani abbiamo la responsabilità di chi fa opinione, bisogna sviluppare un pensiero, una visione. Il problema è capire non quello che succede fra tre giorni o due mesi ma fra cinque anni: dove vogliamo andare? Rispondere a questo è una cosa molto complicata.
Non abbiamo alcun punto di riferimento?
E’ interessante che stiano riemergendo proposte lavorative che ricordo nel passato, come quando alla Volkswagen di tanti anni fa riuscirono ad avere un contratto di lavoro di un giorno in meno a parità di salario. Ma oggi bisogna capire se è questo compatibile con la struttura di un mercato che chiede sempre di più.
Questo il problema, un mondo del lavoro che non si accontenta, che esige sempre di più, no?
Altro elemento in questo senso è fare i conti con la robotizzazione incombente già prevista nei piani industriali. La robotizzazione spazza via le mansioni medio basse, non certo quelle apicali. Bisogna chiedersi dove vanno a finire questi lavoratori. Una volta che hai l’azienda robotizzata chi lavora e come lavora? Il robot lavora 24 ore su 24 non è che il robot ha un contratto da otto ore al giorno. La domanda è però: chi lo controlla di notte? Una volta i turni di notte li facevano le mansioni più basse come gli operai della Fiat che dovevano fare il ciclo di 24 ore, adesso saranno degli ingegneri elettronici super laureati che faranno i turni per controllare i robot. Degli executive che magari guadagnano anche tanto che però devono fare dei lavori che nessuno vorrebbe fare, però dovranno stare lì perché se si inceppa la linea di robot un essere umano deve intervenire.
Non ritiene che in un certo modo stiamo tornando a quando gli operai lavoravano dodici ore al giorno e la loro vita era fatta di lavoro e casa per dormire? Se si parla con la gente si avverte di come siano sempre più demotivate, che ne pensa?
Chi si dovrebbe preoccupare di tutto questo, a parte i lavoratori, sono gli apicali. Torniamo allo smart working. Il vero problema è che inducendo sulle persone questo tipo di stress che deriva dal fatto che mentre sei a cena con tua moglie ti arriva una mail del tuo capo che ti chiede immediatamente di risolvere un problema, devi rispondere perché è il tuo capo, la serata va in fumo e la moglie si arrabbia.
Quindi?
Il vero problema è a monte: la fabbrica 4.0 è più innovativa della fabbrica 2.0? Secondo me no. Questo stress mette a tacere la creatività, la neutralizza perché lo smart working porta isolamento e nessuno da solo è creativo. Seconda cosa è una routine che non finendo mai non esiste più l’altra parte della vita che sarebbe il ricarico di batterie, una semplice serata con gli amici che è cosa fondamentale per ricaricarsi.
Come si esce da tutto questo? Basta un sostegno psicologico?
Bisogna reinserire da qualche parte degli interruttori. No, il sostegno psicologico non basta, vorrei evitare di entrare in un mondo dove noi psicologi dobbiamo fare di tutto. Sono contro questo eccesso di psicologizzazione della quotidianità, non possiamo per ogni problema dire di andare dallo psicologo. Non possiamo fare come Macron che offre le sedute di psicologia gratuite ai ragazzi della DAD. Facciamo il danno e poi lo devono riparare gli psicologi. Cominciano a non fare i danni, mettendo degli switch, mettendo del interruttori. Bisogna avere la libertà di chiudere il telefonino, non essere sempre online ma è difficile perché la tecnologia mischia la vita privata con quella lavorativa. Dobbiamo trovare come sempre dei rimedi, sarà la nostra coscienza collettiva a farlo.
(Paolo Vites)
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