La morte di Vigor Bovolenta, così come la recentissima vicenda legata a Fabrice Muamba, non può non scuoterci. Sandro Bocchio prova a proporre una lettura di quello che resta un mistero
Improvvisamente, dopo un turno di servizio, Vigor Bovolenta ci ha lasciati. L’ennesimo caso di morte in campo di un alteta ha richiamato il suo precedente più prossimo, quello legato a Fabrice Muamba, il difensore del Bolton tornato alla vita dopo quattro arresti cardiaci.
Due atleti, due fisici allenati, due cuori che s’inceppano. Con una differenza, fondamentale: il primo, quello di Fabrice Muamba, si rimette in regolare movimento dopo 78 interminabili minuti; il secondo, quello di Vigor Bovolenta, non riparte più. Da sabato a sabato, due destini uniti dalle circostanze. Più eclatanti quelle che coinvolgono il centrocampista del Bolton: per il luogo (uno stadio gremito) e per la risonanza (una partita di coppa d’Inghilterra, con immagini subito rilanciate a livello mondiale). Più dimesse quelle che avvolgono gli ultimi istanti del pallavolista: una partita di quarta serie, un palazzetto di provincia, una copertura mediatica assente. Una scelta di vita che il centrale aveva fatto per restare più vicino alla moglie e ai quattro figli, dopo aver vinto dappertutto, con i club e con la Nazionale. Tranne la medaglia d’oro olimpica, maledizione per la pallavolo italiana.
La differenza tra i due? Una risposta pratica parlerà giustamente della qualità nei soccorsi: a Londra c’era un defibrillatore, che ha consentito di tamponare la situazione sul campo prima di poter raggiungere l’ospedale dove poi si è completato quello che tutti hanno definito un miracolo. E poi si potranno anche eventualmente ricordare i problemi di cuore avuti in gioventù dal pallavolista, per un’aritmia ballerina (con la mancanza di controlli preventivi sul centrocampista a fare da contraltare). Ma ben più difficile è trovare un motivo con cui giustificare il fatto che Muamba si sia salvato e Bovolenta invece no. Anche perché s’innescherebbe una spirale da cui non si riuscirebbe più a uscire, cominciando dalla palestra di Macerata e andando ad analizzare a ritroso tutti gli episodi di cronaca che ci hanno colpito personalmente oppure hanno segnato l’immaginario collettivo. L’unica alternativa alla disperazione – e unica risposta possibile – è sottolineare come ognuno di noi non possa essere il signore del proprio destino ma debba rendere conto ad Altro da sé.
E questo è sempre più inesorabilmente evidente quanto più sono umanamente drammatiche le circostanze in cui una vita terrena cessa.
